In questi giorni la professione di giornalista ha subito degli scossoni. Il primo è stato quello sul nuovo contratto collettivo che stabilisce l’equo compenso, il secondo è invece l’approvazione da parte del Senato (non ancora definitiva) delle sanzioni per l’esercizio abusivo di professione giornalistica. Premetto che io non metto in discussione il diritto di chi fa esclusivamente il giornalista a vedersi riconosciuto la giusta ricompensa per il suo lavoro; né il fatto che obiettivamente, se esiste un ordine professionale, è giusto che chi non ne fa parte ne stia fuori. Però ci sono due però. Il primo è quello che esistono posti disgraziati, magari non dimenticati da Dio, ma dalle connessioni internet e dalle coperture del digitale terrestre sì, dove anche volendo, il giornalista a tempo pieno non lo riesci a fare a meno di non essere ricco in partenza o sposato con un’ereditiera. Il secondo è che non esiste una vera e propria formazione per i giornalisti, e se esiste non ne sono a conoscenza. Qua e là leggo di lauree magistrali in giornalismo ed editoria, ma per diventare professionista devi frequentare una scuola di specializzazione riconosciuta dall’ordine (che sono poche e costose) oppure fare il praticantato con annesso corso di formazione. Più complesso che diventare avvocato.
Rimane la carta di diventare pubblicisti, con parametri assolutamente demenziali, in particolare quelli relativi alla retribuzione minima per poter iscriversi.
Ammesso e non concesso che uno segua uno dei due iter emerge che:
1) basta una qualsiasi laurea per fare il giornalista “professionista” e quindi i corsi universitari sono pressoché inutili o di completamento
2) basta anche la terza media per scrivere su un giornale, poiché è sufficiente presentare le carte in regola per iscriversi nell’elenco dei pubblicisti.
Un giornalista non deve fare come il medico, l’avvocato o l’ingegnere che hanno un iter logico di laurea- praticantato/specializzazioe- esame di stato. Un appassionato di calcio può benissimo essere laureato in chimica e portare la sua passione su un quotidiano perché al quotidiano quello basta. Nella migliore delle ipotesi potrebbe essere assunto.
Ricordo ancora il mio colloquio alla Gazzetta di Modena, un imprecisato giorno di maggio del 2008. Mi dicono di presentarmi a mezzogiorno in redazione, vado, parlo dieci-minuti-dieci col caposervizio della provincia, mi spara un bla-bla non assumiamo bla- bla soldini bla-bla pubblicista bla bla buon lavoro. Per entrare a Modena Qui, il colloquio l’ho fatto al telefono sempre a maggio ma cinque anni dopo e il mio responsabile l’ho conosciuto dopo cinque mesi. In entrambi i casi sono stato regolarmente pagato, poco, ma pagato. In entrambi i casi nessuno mi ha chiesto di formazione letteraria, capacità di stare sulla notizia, niente. Il giornalista lo può fare chiunque, la formazione è inesistente, l’esistenza dell’ordine un paradosso. L’iter ideale potrebbe essere: laurea (qualsiasi) un test attitudinale al praticantato ma solo per stabilire l’area tematica dove lavorare (esempio un laureato in giurisprudenza fa il praticantato in cronaca giudiziaria, uno in medicina per una rivista scientifica ecc.) e poi vinca il migliore per un posto in redazione, da inviato o da corrispondente. Fantascienza?
Veniamo al primo però.
Il mito del giornalista si divide in: animale da redazione stile Clark Kent, inviato sportivo stile Giovanni Arpino (o per i più contemporanei Federico Buffa) oppure corrispondente di guerra stile Oriana Fallaci. Nessuno, nemmeno il sottoscritto, si sogna di diventare corrispondente da Sestola, Frignano, Appennino tosco- emliano. E’ segnato sulle cartine geografiche? E’ un posto di frontiera? Beh, è vicino al confine con… la Toscana.
Quando parli di Appennino tosco- emiliano vengono in mente due cose, forse tre: Alberto Tomba, Giovanni Lindo Ferretti e Luca Toni. Per i più aggiornati Giuliano Razzoli, per gli appassionati di musica mainstream Vasco Rossi (ma è basso appennino e poi vive a Bologna), per gli osservatori politici Gian Carlo Muzzarelli… non è proprio il centro della cronaca giornalistica.
Eppure di cose ne accadono e vale la pena di raccontarle perché esiste un pubblico, quello che sul luogo vive, che le legge. E che ne vuol sentir parlare.
I quotidiani locali sono concentrati per il 90% sui fatti che coinvolgono i capoluoghi principali e lo sport. Alla provincia restano le briciole, i giornalisti professionisti, comodi nelle loro poltrone che nessuno mai gli toglierà non si schiodano per vedere che succede in Appennino, troppo lontano, troppe curve e neanche stanno a mandare gli sfruttatissimi collaboratori di redazione (diciamo che almeno questo supplizio lo evitano). Un corrispondente in loco è l’unica soluzione. Ma il corrispondente in loco, per quanto scriva, non potrà mai mantenersi di sola scrittura perché spostarsi in montagna richiede tempo, soprattutto in inverno e si va per forza in rimessa, ragion per cui il corrispondente in loco deve trovarsi un secondo lavoro che, spesso, diventa il primo.
Ha senso a queste condizioni iscriversi all’ordine dei pubblicisti? Si, se si vuol scrivere giusto per pagarsi il tesserino e fregiarsi del titolo. Ma un corrispondente che non si iscrive all’ordine perché a conti fatti è una presa in giro, e che guidato da passione e professionalità acquisita sul campo scrive con soluzione di continuità per la testata giornalistica che lo pubblica, rischia la galera per esercizio abusivo di professione anche se ciò che pubblica è sempre corretto?
Non va dimenticato che sono gli stessi giornalisti con titolo a fomentare questa pratica. A sentir loro è un volar di stracci, è vergognoso che i precari trottino come muli per quattro soldi, però non rinunciano mai ai contributi letterali per riempire le pagine.
Da tempo sostengo che dovrebbe esistere il giornalista part-time, per lo meno per la figura dei corrispondenti. Il tanto vituperato equo compenso va in questa direzione, piaccia o meno. Mi stupisco di coloro che si scandalizzano e non tengono conto delle situazioni disagiate da cui si scrive. Ma pensate che i posti disgraziati e rischiosi siano solo Scampia, il fronte palestinese, o i tribunali dove si tengono i processi ai mafiosi? Io una volta ho perso un pomeriggio sotto la pioggia per andare a documentare l’incidente di un aliante il cui conducente era morto. Ho fatto pezzo e foto, ho rischiato una bronchite ad agosto e come premio ho visto pubblicate le foto di qualcun altro. Però alla guazza c’ero stato io.
Io sono d’accordo con chi dice che la professione sta cambiando e che l’ordine andrebbe abolito. E sostengo che occorrerebbe cambiare le dinamiche delle notizie locali, con redazioni snelle e operatori sul posto retribuiti equamente anche e soprattutto in virtù del fatto che quello non può essere l’unico mestiere che fanno, semplicemente perché il mercato non lo consente. Già, il mercato. Tutti a parlare di informazione libera, di dignità dei giornalisti eccetera, quando in realtà chi detta le leggi è solo e semplicemente il mercato. Ma in Italia sembra non accorgersene nessuno.
Stefano Bonacorsi