tardi

tardi. comunque vada è tardi. non ho seguito l’ultimo messaggio video dell’imperatore, ma posso dire che, comunque vada è tardi. tardi per “eliminare” Berlusconi, tardi per lui, tardi per tutti. tardi perché il caimano poteva essere messo da parte quando era possibile, nel 1996, appena sconfitto alle urne, facendo valere una legge esistente e non ad personam. quella legge elettorale che, tolto il sistema di voto, prevede che un titolare di concessioni pubbliche non può coprire la carica di parlamentare. e la legge è datata 1957, tempi non sospetti. Improbabile che una qualsiasi giunta per le elezioni a maggioranza di centrodestra potesse votare sull’incompatibilità del cavaliere, ma nel ’96 nel pieno della sua debolezza politica (e anche economica) era fattibile. il colpo di grazia. e invece niente fino a oggi, giorno del suo ultimo delirio e del delirio di una giunta che sa, che dopo il voto, cambia (questa volta davvero?) tutto. cambierà la maggioranza di governo (non tarderà, il Berlusconi salvatore della patria è una favola per pochi), e soprattutto non ci saranno più alibi. tolto quello che, per anni, è stato descritto come la causa di tutti i mali del paese, dovrebbe cambiare tutto. via lui, spazio al nuovo, spazio alle riforme, basta immobilismo. basta? sì basta. perché non ci sono più scuse e ora, davvero si vedrà l’inettitudine di coloro che si opponevano a Berlusconi. non sarà più colpa sua, non c’è più. ma con lui non ci sarà più questo governo, non ci sarà la vera possibilità della sinistra di cambiare volto (e uomini) non ci sarà Renzi. delirio di un cronista di provincia? no. eliminando Berlusconi, nel momento in cui da lui, più che in altre occasioni, dipendono le sorti politiche del paese, si elimina il paese. il Pd non aspetta altro: tolto Berlusconi non ci sarà bisogno del suo clone a sinistra. e di nuovo imposizione fiscale perché è l’europa che ce lo chiede. Berlusconi ha spaccato il paese fino all’inverosimile, fino a renderlo indispensabile per un governo retto da un uomo di centrosinistra. quel centrosinistra che non ha saputo arginarlo politicamente. e che una volta di più non saprà cogliere il cambiamento.

J.

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il giorno dell’unità nazionale

Nel giorno in cui appare evidente che, a due mesi di distanza, il vincitore delle elezioni è Berlusconi, l’Italia si trova a festeggiare la sua 68esima festa della Liberazione. e in questo giorno, Enrico Letta, si appresta ad avviare le consultazioni del Governo, che sarà di larghe intese, o di unità nazionale che dir si voglia, ma sarà. Col benestare di quanti gridano al lupo, che il re è nudo, che con Berlusconi mai e poi mai, ecc. ecc. Non è un caso che si parta oggi con le consultazioni, non c’è occasione migliore per avviare una vera riconciliazione nazionale, mettere finalmente all’angolo tutti i residui di fascismo (antifascismo e fascismo di ritorno -alias grillismo- compresi) e cominciare a pensare veramente agli italiani. ovvio, non sarà il governo dei miracoli, non si sa cosa faranno realmente, ma si sa che faranno, devono fare, le elezioni non ce le possiamo permettere, speriamo non sia una perdita di tempo.
speriamo invece che colgano il momento, già queste elezioni sono state storiche perché, laddove non sono riusciti i rottamatori, sono riusciti gli elettori e gli eventi. è il momento della riconciliazione definitiva, la resistenza cominciò il 25 luglio del 1943 con la destituzione di Mussolini e uno stato che voleva riappropriarsi la credibilità. Il consenso al fascismo ci fu, per poi rendersi conto che era stata la scelta sbagliata, è da ipocriti pensare ancora oggi che di colpo l’Italia rinsavì e che chi era all’opposizione era in realtà maggioranza. Così come è da ipocriti pensare che la ripartenza dell’Italia di oggi non debba passare da Berlusconi che, volente o nolente, è stato il degno leader di questa Italia negli ultimi 20 anni, il che deve fare riflettere sullo stato degli italiani. ricordiamoci che lui è l’effetto e non la causa dei mali del paese. detto questo, buon 25 aprile di unità nazionale e non di rivendicazioni falso-patriottiche. che questo giorno diventi il giorno dell’Unità e non solo della liberazione. amen.

Jack

e se fosse tutto un inganno?

caratteristica della campagna elettorale 2013 è l’apertura ai gay da parte di tutte e tre le principali forze politiche in campo: Berlusconi- Monti- Bersani. non c’è n’è uno che si sia astenuto dal fare una dichiarazione a favore del riconoscimento dei diritti civili per gli omosessuali, anche se, nel caso di Berlusconi e Casini (che sostiene Monti) con molti distinguo, in primis, il sì al riconoscimento delle coppie di fatto (quindi delle coppie gay) no al matrimonio.
ora, comunque vada, il matrimonio in senso lato, che sia concordatario o civile, non se lo vedranno riconosciuto. in primo luogo per la normale ingerenza vaticana, poi perché la condizione degli omosessuali in Italia, è ben lungi dall’avere una dignità vera e propria. l’omossessuale in questo paese è descritto ancora come una macchietta effemminata per quello che riguarda gli uomini, come un sogno erotico per quello che riguarda le donne (nei pensieri del maschio medio la coppia lesbo è materiale per autoerotismo), come un fenomeno da baraccone per quello che riguarda i transessuali.
ammetto che in vita mia non ho mai avuto le idee chiare, anche se ho sempre preso la parte di coloro che in questo contesto mi parevano i più deboli, cioè i gay.
però c’è un però. si fa un gran parlare del riconoscimento dei diritti, ma quello che mi chiedo io, è previsto anche un futuro riconoscimento dei doveri? mi si dirà che è scontato e ovvio, ma non è così, e l’immigrazione ce lo dimostra.
nel caso dell’immigrazione l’Italia è stata tollerante ma non accogliente, col difetto che, per via di un innato buonismo, per paura di passare da razzisti a certe categorie di immigrati si perdona (quasi) tutto, vedi ad esempio i casi di alcuni immigrati di matrice islamica quando picchiano le loro donne. in questi casi a volte si assiste al paradosso di certe femministe di sinistra che non sanno se difendere i diritti delle donne o difendere l’Islam, quando sarebbe più comodo condannare il singolo caso. ma non divaghiamo.
con l’omosessualità in Italia c’è una tolleranza imbarazzante. oramai è il trionfo del politically correct, ragion per cui in pubblico nessuno si permette di scherzare sull’omosessualità o quasi. la lobby gay è diventata abbastanza potente e trasversale da influenzare tutti gli schieramenti politici (si veda il caso di Fini che riteneva che un omosessuale non avrebbe dovuto insegnare a scuola), tanto che o sei con loro o sei contro di  loro, un po’ come accade negli Stati Uniti quando c’è un qualsiasi dibattito politico.
se dunque si è a favore del riconoscimento dei diritti civili ai gay si è aperti di mente e progressisti, se invece no si è dei bigotti retrogradi.
però, nelle piazze, nei bar, nei discorsi da spogliatoio, l’avversione agli omosessuali c’è. nelle trasmissioni televisive, al di là di un certo perbenismo, si coglie la perplessità. e allora che c’è?
c’è che siamo all’inganno, l’ennesimo, del consumismo. gli omosessuali hanno creato le loro comunità, i loro stili di vita, il loro modo di consumare. e lo hanno imposto al resto del mondo, tanto che, laddove c’è libero mercato c’è il riconoscimento di determinati diritti: dalla convivenza con diritto di assistenza, al matrimonio, all’adozione.
ora, va detto che in Italia non mancherebbero gli escamotage giuridici per regolarizzare le coppie di fatto e quindi i gay: basterebbe applicare la disciplina generale del contratto, stabilendo una convivenza con diritti e doveri attraverso questo meccanismo e il gioco è fatto. se poi i meccanismi bancari e di assistenza fossero in base al singolo individuo (e di conseguenza alla persona dalla quale l’individuo vuole farsi assistere) sarebbe ancora più semplice e senza troppo rumore.
Su adozioni e affidamenti invece rimane la mia perplessità, non tanto perché penso che non farebbe bene ai bambini (si veda anche qui), ma perché sarebbe prima da risolvere il problema riguardante le ragazze madri, ancora oggi viste con fumo negli occhi, e di cui la società si è scordata.
non sono un sociologo, prendetemi pure per matto o per retrogrado, chi poi conosce i miei passati di militanza sarà stupito da questo argomento, io però mi baso sulla storia: l’omosessualità ha conosciuto epoche di tolleranza e di intolleranza. mi si dirà che non è un caso che non era tollerata nel medio evo così come non lo è oggi nel terzo mondo. io non sono qui a fare il moralista, a dire cosa è giusto e cosa no. ma dopo un’analisi attenta posso dire che il costume che ammette l’omosessualità e la equipara in maniera naturale all’eterosessualità, deriva dal consumismo. e in un epoca in cui si discute sull’importanza dei valori fondanti della società occidentale e sulla loro importanza attuale, nel senso di resistenza al mutamento sociale, le domande a riguardo sono da porsi. la mia domanda è: si tratta di un riconoscimento di diritti, o è l’ennesima variante consumistica? il consumismo ha già demolito l’istituzione della famiglia, imponendo l’emancipazione della donna, che è sacrosanta, non fosse che in Italia è stata intesa come legalizzazione morale del meretricio ai fini della scalata sociale.
dunque cosa può comportare l’emancipazione dei gay? un nuovo tipo di famiglia? e allora perché non lavorare su quella tradizionale in disarmo? su un nuovo tipo di amore in società sempre più individualistiche?
mi dispiace ma i tempi non sono maturi. se anche Berlusconi si muove a favore dei gay, vuole dire che esiste un tornaconto, sia elettorale che economico. gli stessi omosessuali dovrebbero porsi le domande che mi faccio io, perché mentre i loro rappresentanti giocano col potere, i loro diritti non vengono portati avanti, ma vengono usati come scusante. sono un numero, utile a qualche politicante e imprenditore. ma la cosa che dovrebbe stare loro più a cuore, cioè l’essere trattati come persone, come cittadini, la trascurano. meglio il folklore della dignità? mi dispiace, ma io ci vedo un inganno. l’inganno di persone usate per fare circolare denaro e creare ricchezza. creare nuove fette di mercato (o ampliarle perché esistono già). è riconoscimento di diritti questo? e se fosse tutto un inganno?

Jack

una questione di principio

in tutto il delirio che ha scatenato la lettera di Don Pietro Corsi parroco di San Terenzio in provincia di La Spezia, si è dimenticato un particolare fondamentale che smorzerebbe le polemiche e basterebbe da solo sminuire il ruolo del sacerdote e a spegnere le polemiche. bastava sollevare una questione di principio, citata nel Vangelo di Luca, 6,37:<>. al Vescovo di La Spezia sarebbe bastato citare questo passo per mettere all’angolo il pretino, alla Chiesa Cattolica basterebbe ricordare questo, per riedificare il suo ruolo; a un qualunque giornalista, opinionista o attivista femminista sarebbe bastato questo passo, per stabilire dove finiva la missione spirituale del prete e dove cominciava un concetto religioso, umano e bigotto.
un uomo di Dio, quali dovrebbero esser i preti, non giudica, se segue il Vangelo. nel giudicare, nel generalizzare questo sacerdote di provincia, ha sbagliato in pieno la sua missione, questo dovrebbe essere messo in risalto. e invece siamo alla banalizzazione del fatto, ridotto ad un nuovo pretesto per attaccare la Chiesa Cattolica (come se ne servissero) e, fatto gravissimo, a una nuova banalizzazione della violenza alle donne, che nuovamente torna ad essere un argomento da bar, anzi da parrocchia. eppure bastava un versetto. un semplice versetto. un versetto che avrebbe realmente reso inutile un pretino che a quel punto avrebbe dovuto trovarsi altro da fare. un versetto che avrebbe potuto per una volta riabilitare una struttura secolarizzata come la Chiesa Cattolicaun versetto che non avrebbe banalizzato un argomento di drammatica attualità come il femminicidio. ma in tutto questo delirio, ci si è scordati della cosa più semplice: di una questione di principio.

Jack

noi (non) ci saremo?

mi perdoneranno coloro che credono a queste cose, mi diranno che non capisco un cazzo, che vedo il marcio ovunque, che sono paranoico. però no, tutto ma questo no. non lo voglio il live aid emiliano, mi fa orrore il solo pensarlo. non aspetto neanche di sapere il cast ufficiale, so solo del rifiuto di Vasco Rossi, il quale dice: “No. Non parteciperò a nessun concerto di beneficenza. Non amo quel modo di farla, poco costoso e poco faticoso. Certo rispetto chi la fa così, ci crede ed è sincero. Ma io penso che la beneficenza si debba fare tirando fuori i soldi dal proprio portafoglio, senza troppo spettacolo e pubblicità”. e per una volta possiamo concordare su quello che dice, dato che negli ultimi tempi, l’uomo (o quello che ne rimane) è stato solo in grado di farsi della pubblicità polemica e fine a se stessa. 
perché non avrei voluto l'”Emilia Live”? perché queste cose si sa che vanno a finire in merda. perché anche se sono tutti artisti emiliano- romagnoli e quindi presumo sensibili al tema e ancestralmente legati alla loro terra ferita dal sisma, non si cureranno minimamente di dove andranno a finire i soldi. sia chiaro, non voglio dubitare della buona fede del progetto né di chi partecipa, magari Beppe Carletti seguirà tutto per filo e per segno… ma c’è davvero bisogno di tutto questo? non sarebbe più semplice che tutto il cast che parteciperebbe facesse una donazione direttamente sui conti correnti di riferimento della Regione Emila Romagna e dei comuni colpiti (come consigliano di fare con le donazioni generiche, evitando inutili  giri via sms, o altre iniziative pompose/mediatiche). non sarebbe più bello ancora se gli artisti, magari in sordina e con poca pubblicità facessero comparsate nelle tendopoli, suonando a mo’ di bivacco per la gente accampata? i Modena City Ramblers, che saranno tra i partecipanti, ad esempio so che sarebbero in grado di farla una cosa del genere, senza muovere palchi o service… anche perché, degli sfollati che hanno perso tutto, dal lavoro alla casa, chi di loro potrà andare a vedere un concerto dedicato a loro? e quanti di loro vedranno materialmente realizzare qualcosa coi soldi ricavati? se venissero a dirmi che il comune di Bologna non vuole nulla per l’utilizzo dello stadio, l’Enel o l’Hera abbuonerà l’uso della corrente elettrica, che la Siae non passerà all’incasso, che i promoter non ci faranno la cresta allora ci crederò, ma voglio ricordare che l’Emilia, in tutto il suo orgoglio e splendore, fa pur sempre parte di quel dannato paese che è l’Italia, e alle italianate non si scappa, soprattutto quando c’è della beneficenza di mezzo. e ripeto, non voglio minimamente pensare che gli artisti coinvolti ragionino in termini di impegno sociale come mezzo promozionale, però… ci sono troppi però. c’è già stato il caso di “Domani” la canzone scritta per il terremoto in Abruzzo, i cui proventi dovevano essere destinati al conservatorio dell’Aquila ma non se n’è saputo più nulla (e sono rimasto alle inchieste del Mucchio Selvaggio di un po’ di tempo fa). augurandoci che a nessuno venga in mente di scrivere una canzone sul terremoto emiliano (per lo meno se lo faranno, lo facciano tenendosi alla larga dagli schemi di “Domani”) auguriamoci anche che le cose vadano un po’ meglio del solito, anche se sono pressoché sicuro che nulla di ciò che ho scritto finora sarà smentito. se lo sarà, sarò  contento di essermi sbagliato, ma permettetemi di dire, e qui concludo, che gli emiliani sono sì un popolo fiero, ma sono anche un po’ boriosi e propensi alle “americanate” (siamo pur sempre tra la via emilia e il west no?) e questo ci rende meno superuomini e molto più italiani nel senso peggiore del termine. mi auguro solo, che nella messa in scena del concerto di solidarietà organizzato dai Nomadi, a nessuno venga in mente di cantare “Noi non ci saremo”.


Stefano Bonacorsi


resistere oggi

che senso ha oggi la resistenza? non solo quello della memoria che a dirla tutta, rischia di essere una cosa fine a se stessa e fin troppo soggetta a rimaneggiamenti. anche perché è inutile, oltre che ridicolo, paragonare lo stato delle cose di oggi a quello di quasi settant’anni fa. ridicolo paragonare Berlusconi a Mussolini, ridicolo pensare che l’unità nazionale di oggi (che tra l’altro appare minuscola rispetto alla solidarietà nazionale di Moro- Berlinguer, purtroppo stroncata sul nascere) possa essere accostata a quella del Cnl.
oggi resistere è altro, è innanzi tutto essere consapevoli. consapevoli che ci stanno togliendo la terra da sotto i piedi, che Monti è più accostabile a un Badoglio che non a un De Gasperi e questo la dice tutta circa la soluzione di continuità con cui ci stanno portando al baratro. l’attuale maggioranza non è accostabile al Cnl, rispetto al ’43, c’è sì la consapevolezza che le cose stanno andando di male in peggio, ma non c’è quella voglia di riscatto che c’era allora o per lo meno tutte le manovre di oggi, sono nate e rimaste nel palazzo, mentre settant’anni fa, vuoi anche per il fatto che le opposizioni erano al bando, qualcosa dal basso si mosse. la differenza, non piccola, sta tutta qui.
il consumismo e la joie de vivre ci hanno anestetizzati. non c’è ancora una vera e propria consapevolezza della crisi in cui versiamo, o per lo meno non la vogliamo vedere. di conseguenza manca quella spinta necessaria per spodestare questa classe politica, non con gesti violenti o di lotta armata, non siamo idioti visionari per carità; ma col gesto democratico e non violento del rifiuto, del non voto, del non consumare, del mandare veramente in crisi tutto il sistema su cui si regge questo ridicolo teatrino che ci governa.
consapevolezza dunque, come prima arma per resistere. e come arma definitiva per riprenderci in mano il nostro futuro.

Stefano Bonacorsi

che la porcata sia con voi!

decapitati i vertici leghisti, più per resa dei conti interna che non per i guai giudiziari della ‘ndrina bossiana, le porcate rimangono e sono quelle dell’ABC, che tanto fa rimpiangere il vecchio CAF (anche se, tra correre e scappare…). come emerge da questa notizia è stata fatta la bozza di riforma istituzionale. riduzione numero dei parlamentari, superamento del bicameralismo perfetto e blablabla… questo per intenderci. entrando nello specifico della bozza emergono alcuni particolari non inquietanti, bensì sconfortanti su quello che potrà essere la riforma, ammesso che vada in porto. tralasciando il numero esiguo dei tagli dei parlamentari (si può tranquillamente fare una Camera da 360 deputati e un Senato da 180 senatori sfanculando il voto degli italiani all’estero, che vengano a subirsi direttamente le conseguenze delle loro azioni perdìo), quello che mi lascia perplesso è il processo di formazione delle leggi. a leggersi la bozza dell’articolo 72, non si capisce un benamato. voglio dire, non serviva la scala per capire che una ripartizione delle competenze tra le camere si poteva fare sulla base dell’articolo 117 (cioè la ripartizione tra le materie di competenza esclusiva dello stato, e di materia concorrente stato-regioni). quello che non capisco è la previsione di un criterio di prevalenza in base al quale si sceglie a quale camera destinare il disegno di legge, così come non mi è chiara la previsione di una possibilità che una camera ridiscuta quello che ha fatto l’altra se un terzo dei componenti non ha niente da dire entro 15 giorni dall’approvazione da parte della prima camera. leggetevi la bozza e, se masticate un po’ di diritto pubblico, vi apparirà chiara la contraddizione. quello che voglio dire è, una volta deciso chi si occupa di cosa, affidando alla Camera dei deputati le materie di competenza esclusiva dello stato e al Senato le materie di competenza concorrente Stato- regioni, non è più semplice stabilire una serie di materie comuni tra le camere (tipo la legge di bilancio o le missioni all’estero, oltre alle procedure in seduta comune), e chiarire che laddove non è specificato è competente una camera sola? a che serve la previsione di un eventuale comitato paritetico che decida chi si deve occupare di un determinato disegno di legge? per non parlare della commissione paritetica per le questioni regionali che discute le materie di competenza concorrente. ma dico io, fare in modo che i presidenti di regione godano di diritto di un mandato senatoriale? così facendo si introdurrebbe il rinnovamento parziale del Senato, ma con le funzioni diverse tra le camere non sarebbe un problema, e finalmente si avrebbe una rappresentanza seria delle autonomie locali e soprattutto verrebbero meno i problemi di comunicazione, oltre a garantire una soluzione di continuità nelle materie di competenza concorrente (oltre ad abolire la puttanata della conferenza Stato-Regioni e i gli inutili delegati dei consigli regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica).
poi sarò scemo io, ma più che i poteri del Presidente del consiglio, che con un buon sistema maggioritario basato sul modello francese (e previsto anch’esso dalla Costituzione e non con una legge ordinaria) non necessiterebbero in quanto si avrebbe un parlamento degno di questo nome; avrei aumentato quelli del Presidente della Repubblica. buona l’idea del potere di revoca dei ministri su proposta del capo del governo, ma per me dovrebbe essere esercitato una volta sentiti i presidenti delle camere eliminando lo strumento della fiducia.
mi spiego meglio: in un modello parlamentare come il nostro, il centro della politica è appunto il parlamento. con un sistema maggioritario da cui nascono maggioranze forti o deboli (e non guazzabugli) lo sbocco quasi naturale è che i leader dei partiti o delle coalizioni, diventano capi di governo. personalmente non ho mai capito lo strumento della fiducia, che tra l’altro viene abusato nel momento in cui c’è da decidere nella maniera “o si fa così o tutti a casa” tanto cara anche all’attuale presidente Mari&Monti. preferirei un sistema in cui il Presidente della Repubblica, preso atto di ciò che potremmo chiamare “palese inefficacia dell’azione di governo”(quando le proposte del governo vengono sempre o quasi respinte per intenderci) può, sentiti i presidenti delle camere revocare il governo e conferire un nuovo incarico. più o meno quello che ha fatto Napolitano con Berlusconi, solo che non c’era nessuno strumento costituzionale vero e proprio per farlo (e infatti l’imperatore dimezzato ha rassegnato le dimissioni). lo strumento della fiducia, così com’è nella costituzione è fatto in previsione di un governo non necessariamente politico, nominato in un accordo tra Presidente e parlamento sulla base del risultato elettorale. ma siccome in un paese democratico e normale prevale la politica, la fiducia sarebbe scontata specie con un sistema maggioritario. ed esistendo un organo terzo come il Presidente della Repubblica… ma qui si parla addirittura di un ritorno al proporzionale!
nella bozza non si parla di ampliare i poteri del Presidente della Repubblica anzi, con la scusa del “forte governo” probabilmente si ridurrebbe sempre più a un soprammobile. perché allora non prevedere, nel già previsto potere di nomina dei funzionari dello stato nei casi previsti dalla legge, la nomina dei vertici Rai e delle varie authority, magari specificandolo nella costituzione? così forse le nomine diventerebbero un po’ meno politiche ma soprattutto meno polemiche.
invece no, niente di tutto questo. il processo legislativo, anziché andare verso una semplificazione va verso uno strano bizantinismo, il governo ipoteticamente forte sarebbe sotto il continuo ricatto delle segreterie di partito (ma la chiamano sfiducia costruttiva) e soprattutto, i costi della politica continuerebbero ad essere alti. ma tant’è, a questo siamo e alle porcate ci affezioniamo. con buona pace di chi ci crede ancora.

Stefano Bonacorsi

l’inutilità di una riforma (e un’anticipazione)

ammetto di non averci capito granché sull’eterna trattativa per la riforma del lavoro, non sto capendo cosa ci stia saltando fuori però, da quel poco che mi compete, capisco che stanno aggirando il problema, più o meno come al solito. la faccio breve, anzi meno: come si fa a pianificare una riforma sul lavoro in entrata e in uscita, quando quello che manca è una pianificazione del lavoro stesso? mi spiego: l’Italia, in quanto paese lungimirante, ha lasciato che tutto il suo tessuto industriale venisse smantellato, soprattutto per l’innata tendenza a buttarsi nel piatto quando è ricco e successivamente a disimpegnarsi, mantenendo uno status di conservazione più che di innovazione ed evoluzione. la conseguenza più evidente di questo atteggiamento è l’esportazione all’estero delle attività produttive.
va specificato, io non sono un economista, ma non serve una laurea per capire questo, basta leggere i giornali: da quanto tempo l’Italia è al palo con le politiche industriali, e soprattutto, da quanto tempo i prodotti di italica manifattura non attraggono più? mi si potrà obiettare che c’è un made in Italy che funziona ed è il nostro orgoglio certo, ma quanto incide sul tanto sbandierato PIL? voglio dire, la nostra economia non si basa solo sul Parmigiano Reggiano, la Ferrari, Armani, Dolce e Gabbana e il prosciutto di Parma.
faccio due esempi concreti, il primo è il mio paese, Sestola, che da villaggio di pastori, nell’arco di un secolo (quello scorso) è diventato un paese di maestri di sci. la “perla dell’appennino” la chiamano, ma in realtà è da tempo in decadenza, e il motivo principe è la mancanza di rinnovamento. da quando hanno scoperto la neve come risorsa (cioè dagli anni ’50) hanno avuto diverse stagioni e diversi investimenti nel settore turistico che a tutt’oggi è la prima attività produttiva del paese. impianti di risalita, alberghi, edilizia turistica (seconde case) svariati mini boom economici. ma da anni, per diversi fattori, il clima e la crisi soprattutto, il turismo annaspa, l’amministrazione si inventa iniziative che movimentano tutto l’indotto (un turismo a carattere sportivo anche per l’estate basato sull’utilizzo del palasport e la turnazione di squadre agonistiche) ma che sanno di soluzione tampone. le lungimiranti amministrazioni negli anni hanno perso opportunità perché si costruisse un tessuto economico alternativo al turismo (o complementare) e gli operatori del settore, finché hanno potuto hanno spremuto. oggi il settore annaspa, avrebbe bisogno di rinnovamento, invoca misure dall’amministrazione ma nella scorsa campagna elettorale erano gli assenti tra il pubblico. si sono insomma seduti sugli allori, ma quegli allori sono appassiti. la stagionalità non basta più a mantenere i pochi lavoratori  del territorio, non ci sono alternative e il territorio spopola. in una situazione del genere a che serve una riforma del mercato del lavoro?
esempio numero due, la pallavolo: dal 1989 al 2005 abbiamo avuto la migliore delle rappresentative nazionali all’interno dello sport azzurro, e una delle più temibili e vittoriose al mondo (è mancato solo di vincere l’olimpiade). il tutto però facendo appoggio su una generazione di giocatori straordinari che con un relativo ricambio, hanno saputo assicurare continuità al movimento. ma il punto qual’è? che, come emerge da una recente intervista ad Andrea Lucchetta durante il periodo d’oro (per non dire di platino) della pallavolo italiana (e si parla dei tempi in cui una finale mondiale non di calcio spostava i palinsesti Rai) non sono stati fatti i necessari investimenti per garantire una continuità degna di questo nome. insomma si è spremuto finché si è potuto e il resto è noia.
si potrà obiettare che sono casi singoli e limitati ad un ambito (la pallavolo tra l’altro è uno sport e in quanto tale ha regole sue sulla disciplina del rapporto di lavoro -a proposito di precari!), ma in realtà se espandiamo le nostre vedute, apprendiamo che tutto il sistema italico funziona così. quando qualcosa funziona, si spreme all’impossibile fino ad esaurimento risorse e non si fa (quasi) nulla per rinnovarle. la conseguenza è che ci si trova con un sistema di attività produttive che, quando non viene smantellato o venduto a proprietari stranieri, non sta in piedi neanche a impalarlo e vive di concertazione, di piani industriali approssimativi e contributi statali.
non si pensi però che questa sia un invettiva contro gli imprenditori o i grandi industriali (io stesso sono un lavoratore autonomo con due partite iva), perché anche i sindacati hanno le loro grosse colpe in questo sfacelo, innanzi tutto perché hanno anche loro la tendenza alla conservazione. da come la vedo io, il sindacato ragiona in questi termini: tu imprenditore crei il posto di lavoro e fine delle favole. il lavoro fine a se stesso con buona pace dello sviluppo delle risorse umane.
secondo me invece, il sindacato dovrebbe occuparsi per primo del fatto che i suoi iscritti non abbiano atteggiamenti che possano nuocere alla produzione e di conseguenza alla categoria. in secondo luogo la conservazione del posto di lavoro dovrebbe essere intesa come un rinnovamento dello stesso, quindi il sindacato dovrebbe anch’esso farsi promotore dei rinnovamenti dei piani industriali. sicuramente lo scontro resterebbe, ma sarebbe meno teatrale e più propositivo.
la commedia a cui assistiamo invece, è quella di due categorie, imprenditori e sindacati (con annessi lavoratori) che puntano alla conservazione a qualunque costo, finché c’è posto, finché ci sono risorse. con un simile modo di ragionare e di programmare il futuro (solo sul breve periodo e mai per il lungo) a cosa serve una riforma del mercato del lavoro di cui tra l’altro, non si capisce cosa cambi effettivamente?
in un sistema ragionato, dove i cicli produttivi non sono finalizzati a raccogliere finché ce n’è, ma sono ponderati per un inizio, un apogeo, una parabola discendente, e quindi una nuova ripartenza, le riforme verrebbero di conseguenza, perché sarebbero il naturale sbocco della percezione dei tempi che cambiano, sulla falsariga di ciò che è avvenuto negli anni ’70 col diritto di famiglia (altro che lotte sessantottine, si trattava di un cambiamento percepito!).
invece siamo qui a parlare di tutto e niente. all’estero elogiano Mari&Monti, ma non sto capendo se perché ci sta salvando noi e l’euro, o perché stanno preparando l’invasione neocoloniale. l’impressione che ho è che potremmo finire in un improbabile medioevo, con l’Italia economica divisa tra le grandi imprese straniere e l’Unione Europea come moderno Impero Romano Germanico. nel frattempo aspettiamo cosa dirà la diplomazia pallonara, soprattutto dopo le elezioni in Francia. in base a come si metterà lo scenario politico ci sarà il vincitore del campionato europeo di calcio. ma di questo parleremo un’altra volta…

Stefano Bonacorsi

la canzone che non c’è.

vigilia di un Sanremo e terrore che invade le nostre orecchie. non so chi partecipa, ma del resto neanche chi prende parte alla gara lo sa, so solo che anche quest’anno c’è Morandi e che Celentano, che non ho capito quante serate fa, prende un compenso stratosferico da devolvere in una non meglio precisata beneficenza. Sanremo è anche chiamato il festival della canzone italiana, ma è da un bel po’ di tempo che mi chiedo dove sia questa canzone italiana, chi rappresenti e soprattutto cosa. la scorsa settimana, uno dei massimi rappresentanti della canzone italica, Vasco Rossi, ha compiuto sessant’anni, un po’ più di trenta li ha passati cantando, sicuramente gli ultimi venti li ha passati per lo più rompendo. e dire che c’è stato un periodo in cui questi dinosauri, oggi fuori tempo massimo, erano davvero la canzone italiana. se Celentano e Morandi sono stati i cantanti del boom economico, Rossi è stato il cantante che meglio ha rappresentato (e anticipato) l’epoca dell’ostentazione, dell’individualismo sfrenato e della disillusione, tanto che oggi, a trentaquattro anni dal suo esordio, ancora non c’è stato uno in grado di succedergli nel dare una voce a quest’epoca, e lui sprofonda nell’ovvietà più ovvia, senza più graffiare, voce rassegnata per un popolo di rassegnati. parafrasando il Moretti di “Palombella rossa” cosa significa oggi Sanremo? nulla di più di quanto non significhi tutto il resto, la nostra sciatta politica che tenta di sopravvivere a se stessa, il nostro campionato di calcio, che sorprende solo gli ingenui, il nostro costume che si riscopre solidale, solo quando la catastrofe bussa alla porta. Sanremo è la canzone che ci meritiamo oggi, un ricordo da poco, un ronzio da dimenticare, polemiche gratuite, i risultati che si sanno in anticipo, la farsa che si fa spettacolo tutti che sanno tutto e tutti che fingono magistralmente. specchio di un’Italia che non sa più (in)cantare, o per lo meno non lo fa con gioia, non coglie l’emozione perché troppo impegnata a sopravvivere; Sanremo ci passerà sopra come una finanziaria, l’ennesimo tributo da pagare, l’ennesimo carrozzone inutile da mantenere, con buona pace del rigore e della sobrietà. intanto per strada, mentre cammineremo, non ci accorgeremo che quello che ci manca davvero, è una canzone che canti di questo tempo, senza pretese di impegno sociale o di chissà quali altre cose. quello che ci serve è una canzone che parli di noi, che ci ricordi le nostre paure senza opprimerci, che ci inviti ad andare avanti anche quando tutto intorno non restano altro che le nostre macerie. qualcosa che quando lo ricorderemo, ci faccia pensare a questo tempo col sorriso di chi ce l’ha fatta, anche grazie a questa canzone che non c’è.

Stefano Bonacorsi

un nuovo processo mediatico

c’è qualcosa di inquietante dietro la diffusione della telefonata tra il comandante Schettino e la capitaneria di porto di Livorno. e lo si può vedere tranquillamente cazzeggiando su Facebook. il dato che balza all’occhio è la presa in scherno dello sbottare del capo della capitaneria di porto De Falco con l’affermazione “vada a bordo cazzo!”.  si finisce che ci si scherza sopra, ma la cosa non mi piace, avverto un fenomeno di cui ho già parlato e che se vi interessa è riportato nel mio libro “La celebrità criminale”. il fenomeno che avverto è che la frase di De Falco, finirà per essere una battuta da cabaret, mentre Schettino passerà da carnefice a vittima. le premesse ci sono tutte, innanzi tutto la telefonata: io l’ho vista riportata al tg de La7, e nonostante il direttore Enrico Mentana, mostrasse il suo disappunto verso Schettino (soprattutto quando ha dovuto leggere il che quest’ultimo era stato posto ai domiciliari anziché in carcere) l’effetto che ho percepito non era quello dell’indignazione ma della compassione. Schettino fa compassione. c’è il rischio che quest’uomo passi per martire, in virtù del fatto che, incalzato da De Falco, si mostrava incapace di reagire, annichilito. consapevole dell’errore commesso, si comportava come lo studente colto dal preside nel pieno di una cazzata madornale. ma allo spettatore, c’è il rischio che questo particolare sia sfuggito. c’è il rischio che lo spettatore colga Schettino come un povero Cristo che impanicato non sa cosa fare. c’è il rischio che lo spettatore provi compassione per questo sciagurato. c’è il rischio che il fatto che quest’uomo sia stato il primo e non l’ultimo a lasciare la nave, passi in secondo piano rispetto alla figura da fesso che i telegiornali hanno spiattellato a reti quasi unificate. se i legali colgono minimamente questo aspetto il gioco è fatto e nessuno pagherà per quanto accaduto all’isola del Giglio. l’opinione pubblica si dividerà tra innocentisti e colpevolisti, e il giudizio sarà una volta di più influenzato e davanti agli occhi di tutto il mondo, la credibilità del nostro sistema processuale- penale, andrà a farsi fottere. già l’avvocato di Schettino, in una dichiarazione che ho sentito letta da Mentana, ha dichiarato che non si può mandare una persona in carcere sull’onda del giudizio dell’opinione pubblica e mai frase fu più azzeccata, perché allo stesso modo, non si potrà giudicare la sua colpevolezza. i mass media, farebbero bene a concentrarsi su quanti hanno operato per salvare il salvabile dalla Concordia, sull’ammutinamento nei confronti di un comandante inetto, e non a cercare il sensazionalismo e l’audience con la messa in diretta di una telefonata che come effetto ha ottenuto la realizzazione di una maglietta con scritto “vada a bordo, cazzo!”. il meccanismo è già scattato e tra qualche anno, passata l’orda mediatica e tutto il contorno, vedremo celebrare un processo che avrà una sentenza di cui nessuno sarà soddisfatto, in primis i famigliari delle vittime. a nulla varranno le varie class action e similari. Schettino sarà un fenomeno da Porta a Porta, al pari della Franzoni, di Alberto Stasi e di Amanda Knox. mi auguro di cuore di avere torto. non sopporto di avere ragione in questi casi.

Stefano Bonacorsi

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