Emilia paranoica (preludio sullo scenario politico nazionale)

E quindi uscimmo a riveder le urne. Domenica nell’operosa e industriosa Emilia Romagna si vota, anche se tre quarti della popolazione presumibilmente ignorano questo fatto. La rossa Emilia dunque esce dalla regolare cadenza delle tornate elettorali regionali che si sono succedute da 1970, ed entra in quella discontinuità elettorale dovuta essenzialmente al malaffare, in pessima compagnia con altre, troppe compagini regionali e locali. La prospera e incorruttibile Emilia Romagna ha smesso d’esser tale e, a questo punto, il sacco di Serra è stato solo un triste preludio. Le elezioni emiliane a loro volta saranno preludio di ciò che sarà la scena politica italiana da qui ai prossimi anni, mille giorni permettendo e alcune cose premettendo.

L’Emilia Romagna è la più artificiale delle regioni italiane, perché nonostante esistesse già nella Roma Augustea, dalla fine dell’impero romano fino al 1970, il territorio fu diviso in feudi, comuni, signorie, ducati e poi, con l’unità d’Italia in province. Non è esistita a differenza di altre regioni settentrionali (il centro sud ha una storia unitaria più lunga per cui non so) un’entità statale che abbia più o meno coinciso con gli attuali confini regionali. Gli stati in Emilia Romagna erano tre: Ducato di Parma, Ducato di Modena e Legazioni Pontificie. Un preludio di unità ci fu quando fu fondata la Repubblica Cispadana della quale riprenderei la bandiera per farne quella regionale al posto dell’orrida attuale.

(mi par che ora possiate capire il perché)

L’Emilia Romagna è insomma una regione posticcia, sintesi a livello locale di quello che è l’Italia, e cioè uno stato posticcio, forzatamente unitario e senza un popolo che possa dirsi nazione. A livello di campanilismo gli emiliano romagnoli non hanno niente da invidiare a nessuno (leggasi questo spassoso decalogo per averne un’idea).
Politicamente l’Emilia Romagna ha una strana coerenza monocolore. Romagnolo è stato il primo deputato socialista nel parlamento italiano e socialista è stata la tendenza elettorale tra il Po e gli appennini. Romagnolo è stato anche Benito Mussolini e, l’intera regione ha cambiato radicalmente colore durante il “biennio rosso”, passando dal rosso al nero. Rosso che poi è tornato di moda nel secondo dopoguerra e, dalle prime regionali nel 1970 a oggi, il sol dell’avvenire, col suo capitalismo autogestito, non è mai tramontato.
Tuttavia la rossa primavera, che dal 1989 ha assunto sfumature assai bianche, sta inesorabilmente avviandosi verso l’autunno, e non solo perché la corruzione s’è fatta un baffo della questione morale, ma anche e soprattutto per la stanchezza e la rassegnazione che domina l’elettorato regionale.
Il prossimo presidente della regione (o governatore come va di moda dire oggi) è stato scelto con le primarie del Partito Democratico le quali sono state un preludio di quello che sarà l’affluenza alle urne, e la conseguenza sarà che l’astensionismo, sarà il vero vincitore della prossima tornata.
Dunque con ogni probabilità, il prossimo presidente sarà Stefano Bonaccini, sintesi perfetta del passato e del presente del PD, in quanto fino alle elezioni dello scorso anno era da considerarsi il plenipotenziario di Bersani in terra emiliana e, come il piacentino col sigaro è diventato poca cosa, si è rifatto una verginità da renziano di ferro. Il tutto rimanendo saldamente segretario del partito a livello regionale.
Lo sfidante più credibile, pare Alan Fabbri, sindaco di Bondeno in quota Lega Nord, imposto dal ViceMatteo nazionale sugli altri azionisti del centro destra, in odore di disfatta. La coalizione, coi Fratelli d’Italia e di fascio e quel che rimane di Forza Italia risulta piuttosto deboluccia, soprattutto per quello che riguarda i pretoriani di Berlusconi in terra emiliana, in lizza per un quarto mandato e con uno scontro aperto (anche se sopito) tra i club Forza Silvio, che spingono per il rinnovamento ma sono stati arginati ed emarginati. La Lega, oramai non più solo nord, pare l’unico partito credibile a poter scardinare (o meglio a poter entrare a far parte del) l’establishment emiliano romagnolo. Non si può dire lo stesso del Movimento Cinque Stelle con la sua candidata Giulia Gibertoni dato come seconda forza regionale, alla luce di quanto raccolto alle scorse politiche. La loro volontà di voler essere fuori a ogni costo, da un lato attira simpatie ma dall’altro non li rende credibili. Vero che sarebbe il caso di azzerare tutto, o per lo meno provarci, ma in regione (o a livello locale) è meno possibile che da altre parti per i troppi interessi trasversali a livello socio-economico-culturale. Inoltre proprio in Emilia Romagna, nel 2010 i pentacampeao avevano raccolto un buon 7%, ma avevano già dato prova di enorme fragilità, prima sacrificando Sandra Poppi (oggi con l’Altra Emilia Romagna) prima dei non eletti in virtù di non so quali logiche, e poi espellendo Giovanni Favia che si era riciclato con l’oscuro ex pm Ingroia.
I competitor per la regione si fermano qui, anche se in realtà sono sei, ma va detto che Maria Cristina Quintavalla si presenta con L’Altra Emilia Romagna i quali sono residuati di trotzkismo e verranno votati solo dagli iscritti alla Fiom che lavorano tra Ferrari e Maserati; Alessandro Rondoni è la candidatura di bandiera per quello che sarà il Partito Popolare in chiave italica e Mazzanti Maurizio fa così tenerezza nel suo presentarsi che meriterebbe un voto solo per averci provato.
In realtà, come dicono in tanti, le elezioni emiliano romagnole saranno un preludio per la leadership nazionale. Fosse un libro di Montanelli, da lunedì, parleremo dell’Italia dei due Matteo. Il primo, presidente del consiglio in chiave democristiano-progressista, che ha svecchiato le apparenze ma che governa con le resistenze; il secondo novello tribuno della plebe, che ha spostato l’asse dello statalismo a destra, dimenticando secessioni e (forse) Berlusconi.
Parafrasando Battisti, scopriremo solo vivendo come andrà a finire, anche se credo che al di là del successo leghista (essere secondi dietro al partitone in Emilia Romagna è sempre un gran risultato), l’altra novità sarà la scomparsa più o meno definitiva della sinistra, coalizzata e non. E se questo accade nella terra del comunismo reale, tutto può accadere. Altro che un uomo nuovo.

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Capriccio

La scorsa settimana è circolata sul web una foto e una polemica sulle adozioni alle coppie gay. Non entro nel merito della polemica tra la Meloni e Luxuria, limitandomi a dire che i Fratelli d’Italia mi sanno sempre di fratelli di fascio e Luxuria, come si dice dalle mie parti, non ha colpa: così è e, purtroppo, così ce lo dobbiamo tenere. Se a questo aggiungiamo che gli paghiamo pure il vitalizio da ex deputato ogni tanto, ragione ai pentacampeao del Chavez ligure mi viene da dargliene.
Tuttavia non riesco ad astenermi sul merito della polemica sulle adozioni ai gay, ma prima devo fare una premessa.

Io ho un passato di sinistra militanza nel senso che ho accompagnato i miei studi universitari, tra le altre cose, partecipando attivamente alla vita politica dell’ateneo modenese in formazioni di sinistra movimentista-radicale-radical chic. Il tutto nell’arco di sei anni, dal 2003 al 2009 anno in cui ho lasciato la militanza in attesa che, nel 2010 mi scadesse il mandato rappresentativo nel consiglio di amministrazione dell’università. Ma questa è un’altra storia.
Sta di fatto che non sono stato immune dai dibattiti di ogni tipo e, lo scrivo, tra le cause sostenute c’era anche quella della lotta all’omofobia. Non ho cambiato idee nei confronti degli omosessuali da allora ad oggi e ritengo che la questione di genere non debba essere una discriminante ma, a differenza di più di un lustro fa, non ho più perplessità riguardo alla questione delle coppie di fatto e delle adozioni. Perché se all’epoca coltivavo dubbi e mi dividevo tra permissivismo e scetticismo oggi mi dico serenamente contrario. E già che ci sono faccio cadere, nel mio piccolo, un velo di ipocrisia: la sinistra radical-chic che tanto ostenta l’appoggio alla questione GLBT, è piena di persone che davanti si battono per la causa e dietro fanno le classiche battute e i classici sfottò (quando non fanno di peggio) che oggi rischierebbero di passare per dichiarazioni omofobe. Non a caso la questione è diventata politicamente trasversale e più che liberale è libertaria.

Passiamo alle motivazioni. La prima, quella che farà sicuramente discutere di più e farà salire sugli scudi chi mi conosce, è la mia fede. Da due anni a questa parte mi sono convertito al cristianesimo (si badi bene, non al cattolicesimo) e, stando alla Bibbia, l’omosessualità non rientra nell’ordine delle cose volute da Dio (sia in Deuteronomio che in Apocalisse ci sono riferimenti in merito). Ciò non vuol dire che discrimino o punto il dito, semmai esigo rispetto per quella che è la mia fede. Come io, da persona civile e residente in uno stato democratico rispetto chi non la pensa come me, esigo rispetto per quella che è la mia fede e, preferirei che non ci fossero atteggiamenti, soprattutto da parte dello Stato, che la discriminino. A giustificare questa mia esigenza linko un post da un mio vecchio blog, pubblicato in tempi non sospetti e in cui mi ponevo la domanda su come si sarebbe evoluta la laicità soprattutto in relazione a quelle che sarebbero diventate le rivendicazioni della comunità GLBT, degli immigrati di matrice musulmana e della convivenza di questi col femminismo e i temi di  bioetica. L’ho riletto prima di mettermi a scrivere e la domanda è ancora attuale.
A chi, leggendo a proposito della mia fede, vorrà darmi del bigotto e dell’intollerante (e perché no, del fondamentalista) replico invitandolo a guardare verso oriente, là dove spunta la mezzaluna dei jidaisti dell’Isis e paesi limitrofi, ricordando che i già i musulmani così detti moderati, storcono il naso di fronte all’omosessualità, quando non la condannano apertamente e spesso con la morte. Ai sostenitori dell’accoglienza e dell’integrazione, che magari non disdegnano il sostegno ai diritti delle coppie di fatto, ricordo che Islam e omosessualità non sono compatibili. Non voglio fare la Fallaci di turno (o il Magdi Allam per citare casi odierni) ma davanti a queste persone, che già non si pongono problemi a dire che le nostre tradizioni li infastidiscono (o addirittura non le tollerano e scomodano il razzismo), come si permetterebbero di reagire i festaioli da gay pride? Con un corteo? Denunciandoli per omofobia come farebbero con un chierichetto qualsiasi? Vista la normale accondiscendenza degli italiani quando vengono accusati di razzismo, questa scena non me la vorrei proprio perdere. E’ uno dei paradossi del multiculturalismo a cui nessuno mi ha mai risposto e di cui in europa esistono già dei precedenti.

La seconda motivazione è di diritto. Esistono delle regole, delle leggi, che giustamente si adattano anche all’epoca in cui si vive. L’omosessualità ha conosciuto “fortune” alterne a livello di tolleranza, dall’epoca romana fino ai giorni nostri. Oggi un omosessuale può vivere liberamente la propria condizione anche solo rispetto a vent’anni fa. E questo, stando a quanto accaduto nei secoli, è un progresso di civiltà. Il rivendicare però la propria condizione, non legittima ad avere un diritto su misura. Relativamente all’omofobia, io non penso che serva una legge apposta, così come per il femminicidio. Quello che deve cambiare è la testa di chi giudica in sede processuale e soprattutto la cultura dominante. L’omofobia è una semplice discriminazione, così come il femminicidio è, più semplicemente, un assassinio per il quale esiste già una fattispecie nel codice penale. Esiste già un’aggravante per entrambe i casi e si chiama “futili motivi”. Il problema è la cultura di fondo e sbaglia chi dice che serve una fattispecie apposita per tutelare di più donne e omosessuali, perché in questo modo si complicano orrendamente le cose a chi investiga e qui vado per paradossi: un ladro omosessuale che viene fermato e picchiato da un cittadino comune (che magari lo apostrofa pure) può avvalersi dell’aggravante di omofobia per avere uno sconto di pena? Provate a mettere al femminile il caso e avrete la stessa domanda (magari inserendo una discriminazione femminile). Già con la discriminazione razziale (e gli Usa ne sono un drammatico esempio) si rischia parecchio in sede giudiziale; avendo noi giudici inclini a interpretazioni acrobatiche della legge (si leggano a prova di ciò giornali di destra o di sinistra, è un dato di fatto) è un rischio che non ci possiamo permettere.

La motivazione di diritto alla mia contrarietà è ampia e variegata (e per un laico magari è più giustificabile). Ho citato il femminicidio prima, inserendo un altro punto dolente delle questioni di genere in Italia. Ho detto che esiste un problema culturale (la reale considerazione che si ha delle donne e dei gay), il quale è profondo al punto che si inseriscono le quote rosa manco le donne fossero in una riserva indiana e, nonostante questo, continua a mancare un riconoscimento di merito (si veda la questione delle nomine da parte del Governo nella scorsa primavera a capo delle grandi aziende pubbliche: donne nominate presidenti si, amministratori delegati- cioè al posto di comando- no. Si tratta di nomine fatte sul merito o per spot?). La questione femminile nel nostro paese è ancora largamente da risolvere. Oggi abbiamo un’equa divisione nel governo tra uomini e donne, ma trovatemi tra loro, o più in generale tra quelle impegnate in politica oggi, una donna con le capacità e il carisma di una Nilde Iotti. Tutto questo per dire cosa? Che essendo deficitario il fattore culturale e di conseguenza quello meritocratico uno dei “meravigliosi” paradossi a cui ci potremmo trovare di fronte è che un uomo gay e una donna si potrebbero trovare in competizione per un posto diciamo importante, di primo piano e… se viene scelta la donna l’uomo potrebbe far valere il fatto che è stato discriminato in quanto gay e lei favorita in quanto donna e viceversa. In Italia può succedere questo e altro, il paese migliore, per ora, è solo nella testa di Renzi.

Ma la motivazione di diritto va oltre. Come detto un omosessuale oggi non deve nascondersi e, fatti salvi gli episodi di omofobia raccontati nei notiziari, può vivere serenamente la propria condizione. E’ un fatto quindi che si vede riconosciuto ed è pieno titolare di diritti e doveri. Le norme sono fatte per adattarsi nel tempo o per essere modificate quando il contesto le rende obsolete. A loro volta, le situazioni di fatto, se si ripetono nel tempo diventano prima una consuetudine e, spesso, finiscono per avere necessità di una legislazione. Fino a quattro anni fa (prima della mia conversione per intenderci) ero convinto che la legislazione sarebbe arrivata in quanto si sarebbe dovuta regolamentare una consuetudine affermata. E sarei stato  sostanzialmente favorevole. Il dubbio però mi assaliva nel momento in cui dibattevo con persone, non necessariamente religiose, di visione opposta. E metabolizzando negli anni, sono arrivato alla conclusione che no, non è necessario l’adattamento della legge alle situazioni di fatto, semmai il contrario.
Giorni fa, a un ricevimento di nozze, una mia amica presente con me, argomentava che a lei, fidanzata da oltre un decennio, il matrimonio non interessava. Il non interesse, per lei come per altri riguarda, oltre che l’aspetto religioso, quello istituzionale e convenzionale. Si tratta di una libera e rispettabile scelta di non regolamentare un rapporto secondo le leggi vigenti. Le coppie eterosessuali che convivono, scelgono consapevolmente di vivere al di fuori di un recinto normativo e questo nulla lo vieta. E’ però criticabile la pretesa di un surrogato normativo che disciplini le convivenze si chiami Pacs, Di.Co, o in altra maniera: il matrimonio, civile o religioso, esiste per stabilire diritti e doveri della coppia. Ha senso inventare un patto civile sulla spinta che (generalizzo) l’amore eterno non esiste? Credete forse che l’esistenza dei Pacs o simili, porti automaticamente al cambiamento delle normative bancarie sui mutui, o che cambino i prezzi delle locazioni a seconda dello stato civile?
Mi si obietterà che le coppie gay non possono godere degli stessi diritti delle coppie sposate, soprattutto in materia di assistenza. A parte che, districandosi nella giungla normativa italiana, pur non essendoci una disciplina specifica, fatta eccezione per la filiazione, le coppie di fatto hanno modo di tutelarsi, e quindi anche quelle gay; rimane il fatto che c’è una scelta consapevole di vivere fuori di un recinto normativo. E anche se l’Unione Europea si muove in direzione dell’uguaglianza di tutti i cittadini (e di conseguenza devono farlo gli stati membri) questa uguaglianza non è percepita allo stesso modo dai cittadini stessi (si vedano le manifestazioni in Francia dello scorso anno). Si tratta di una questione di rispetto: se gli omosessuali fanno parte del tessuto sociale senza discriminanti, questo è già di per sé il raggiungimento di un’uguaglianza perché è sparita una discriminazione. Il non vedersi riconoscere matrimonio e adozioni non è una discriminante poiché questo riconoscimento sarebbe un di più.

Per capire questo occorre arrivare alla motivazione “naturale”. Esulando da ciò che dice la Bibbia in merito, e lasciando perdere certe convinzioni (anche laiche) che ancora la catalogano come malattia; l’omosessualità è una condizione con una sua natura. E la natura della persona omosessuale non si concilia con quella circostante: due uomini che decidono di formare una coppia sanno bene che la natura o l’evoluzione, per il momento, non concederà loro la possibilità di avere figli. La stessa cosa riguarda le coppie di donne e via proseguendo a meno che, la succitata evoluzione, non porti alla possibilità anche per l’uomo della partenogenesi. Se nasci maschio ci muori, a meno di non ricorrere alla chirurgia, se stai in coppia con uno del tuo stesso sesso non puoi fare figli naturalmente a meno di non adottare o di ricorrere alla fecondazione assistita . Gli obiettori alla mia posizione diranno che oggi uno ha la libertà di scegliere a quale genere appartenere, ma quello che mi lascia perplesso è che tra queste persone, ci sono anche gli oppositori agli organismi geneticamente modificati in agricoltura, che vogliono le tutele per mangiare una carne il meno “gonfiata” possibile, eccetera. Allora delle due l’una: vogliamo un ordine naturale delle cose oppure decidiamo cosa è naturale di volta in volta? Qui non parlo dei rischi per i bambini ma di un principio di natura: la condizione di coppia gay non consente secondo una logica scientifico-naturale la filiazione. Un’altra obiezione che può essermi rivolta è: ma perché se le coppie etero non riescono a concepire possono ricorrere all’adozione, le coppie gay invece no? Non si lede un principio di uguaglianza tra cittadini? Può darsi, ma occorre considerare che la coppia etero con l’adozione supplisce ad un handicap (l’incapacità naturale di non procreare) mentre la coppia gay quell’handicap non ce l’ha, di conseguenza il desiderio di genitorialità è viziato, in altre parole è un capriccio.

Poi occorrerebbe approfondire il discorso sulle adozioni in senso lato, di cosa si tratta, quali sono i percorsi da fare, capirne la natura ecc. perché la cosa più importante è la tutela del minore che viene adottato. Così come importante sarebbe evitare che esistessero minori da adottare e cioè combattere la povertà e i disagi sociali che portano all’abbandono e lavorare di fino sulla prevenzione, allo scopo di evitare le gravidanze indesiderate. Anzi, sarebbe senza dubbio la prima cosa da fare, perché questa è la radice del problema alla base del dibattito sulle adozioni. L’occidente, nella deteriorazione dei suoi valori, ha perso anche di vista le cause e gli effetti. Se si combattono povertà e disagio sociale, e si lavora sull’educazione sessuale, ci saranno meno orfanotrofi e soprattutto, meno bambini da adottare o da dare in affidamento. Questo è il vero nocciolo della questione. Il resto, e quindi anche quanto dibattuto in queste righe, è conseguenza delle soluzioni tampone, e quindi il non lavorare a una delle radici del problema. L’altra è l’impossibilità di procreare, condizione che per le coppie etero diventa un dramma e un disagio; mentre per le coppie gay è una condizione consapevole. Tutto il resto è un capriccio.

Stefano Bonacorsi

Analizzare il nuovo corso in appennino

Ripubblico oggi, un mio corsivo uscito ieri su Modena Qui così chi se lo è perso può rileggere questa mia riflessione sulle amministrative appena trascorse. Non dimenticate di leggere il giornale di oggi! Buona lettura!

Non concordo con chi dice che in montagna, i comuni passati al centrosinistra l’hanno fatto sull’onda renziana. Nei piccoli paesi, da sempre (Peppone e Don Camillo insegnano) ha contato più la persona dell’ideologia e oggi non è diverso, soprattutto alla luce del fatto che alcuni vincitori in area dem, hanno preso meno voti rispetto al risultato europeo anche in appennino. Il dato semmai è che più che le persone, purtroppo, contano le questioni personali in particolare nei comuni molto piccoli, dove gli scarti tra vincitori e vinti fanno presagire che ci sia qualcosa in più rispetto alla divergenza di vedute. Mi auguro che per questi comuni sia stata l’ultima volta in cui hanno dovuto scegliersi una guida e che tra le varie spending rewiew ci sia anche la fusione obbligatoria per i comuni sotto i 5000 abitanti. Perché se da un lato in molti hanno spinto sul rinnovamento anche generazionale, dall’altro si denuncia la mancanza di persone capaci che vogliano metterci la faccia. Amministrare, soprattutto in piccoli comuni è un atto di volontariato e non certo una prospettiva allettante per un giovane alle prime armi che voglia farsi un’esperienza.

Stefano Bonacorsi

Ripartire dai "civici"

Qualcuno parla di “effetto Renzi” qualcun’altro di rifondazione, altri ancora di istanza di fallimento. Ma come si è arrivati a tutto questo? E’ molto semplice e i motivi si riducono a due: Berlusconi non ha mai veramente pensato a una successione e Forza Italia non si è mai veramente radicata sul territorio. Fine. In Emilia poi il dato è eclatante, con il ricorso smodato a candidati presi in prestito dalla società civile o il costante uso di notabili, soprattutto a livello locale, persone prestate alla politica, più per partecipare che per vincere. Nel Frignano, dove abito, il Pd ha i suoi circoli locali, che sono o comunali o di un’area appena poco più vasta. Il centrodestra ha sempre battuto un colpo solo in vista delle elezioni a meno di non avere un radicamento culturale forte, caso in cui le parti si invertono ed è la sinistra che fa ricorso alla società civile e puntualmente perde (salvo eccezioni come quest’anno). Il dramma è che i dati locali spesso sono in contrasto con quelli nazionali e qui faccio un esempio. Il comune di Sestola, dove vivo, tradizionalmente in un’elezione politica fa vincere il centrodestra anche con un discreto scarto. Alle ultime amministrative però, il sindaco di centrosinistra ha vinto con quasi il 75% dei voti e la coalizione che è al potere regge da ormai quarant’anni. E’ chiaro che qualcosa non va e quel qualcosa resiede nel fatto che i politici di centrodestra, per lo meno dove abito io, all’ambito locale ci guardano solo come bacino elettorale per le politiche nazionali e vi fanno una comparsata a sostegno dei candidati locali, che normalmente sono loro fiduciari. A Modena, dove si è registrato un autentico disastro nella corsa a sindaco, il dato si amplifica e rende le cose drammaticamente imbarazzanti. Per dirla con Lenin dunque, che fare? E’ abbastanza semplice: si riparte dalle liste civiche che hanno funzionato, da quelle (poche) che hanno vinto e da quelle che se la sono battuta fino in fondo. Si cerca di far partecipare la gente dal basso, magari con le primarie e soprattutto si cerca di federare la base e di essere PRESENTI non solo al momento delle elezioni. In ultimo una serie di dettagli ideologici non piccoli e che possono fare la differenza.

1) Prendersi e difendere la propria parte di storia repubblicana. La resistenza e l’antifascismo non sono un’esclusiva degli ex Pci. E’ esistito un partigianato bianco, così come una forte componente repubblicana non era di sinistra. Sarebbe bene ricordarselo e lasciare i Le Pen di casa nostra a tentare la maldestra imitazione degli originali per conto loro.
2) Mettere in cantiere una politica economica liberale/liberista, lasciando a terra i residui del socialismo craxiano e guardando, più che a fare un partito popolare sulla falsariga europea, a realizzare un partito repubblicano sul modello statunitense.
3) Valorizzare il patriottismo, e magari anche l’appartenenza culturale e le matrici cristiane (che non vuol dire appiattirsi sul cattolicesimo) ma evitare derive xenofobe. Quindi evitare le alleanze coi redivivi leghisti.
Ecco, con queste basi, un partito di destra in Italia lo voterei anche io.
Jack

I tagli possibili

C’è differenza tra i tagli possibili e i tagli coraggiosi. Quelli annunciati dal Governo Renzi e che saranno presentati oggi, saranno i tagli possibili. Teste sacrificabili, mettetela come volete, comunque tagli che fanno rumore ma che si possono fare. E che fino ad ora si è aspettato a farli perché la politica ha tirato a campare anziché tirare le cuoia. Diciamoci tutto, Renzi è arrivato a Palazzo Chigi non tanto perché ha vinto, ma perché la politica, nel suo insieme, ha perso e lui è rimasto l’unica possibilità, l’ultima possibilità di riabilitazione della politica. Se si fosse seguita una logica nelle cose, Renzi si sarebbe presentato alle elezioni dello scorso anno da leader di coalizione e se la sarebbe giocata contro Alfano, ma la logica non c’è stata ed eccoci qui. Dopo il siluramento di Berlusconi ad opera di mercati che una volta in più dimostrarono l’inconsistenza dell’opposizione, e dopo i fallimenti di Monti e Letta, due tecnocrati, e quindi impossibilitati per loro natura a prendere una posizione (politica significa questo), Renzi è l’ultimo tentativo possibile. L’unico in grado di arginare Grillo e la sua banda di fondamentalisti, l’unico che può ridare credibilità alla politica. Se ce lo siamo trovati a guidare l’Italia il motivo è questo: più che salvare il paese (che come sempre farà da solo) salverà la sua classe dirigente, spingendola al rinnovo a partire dalla politica. Le prossime teste a rotolare travolte dalla ghigliottina rottamatrice saranno quelle dei leaders sindacali e industriali, a vedere se si esce anche lì dall’immobilismo. Nel frattempo si da un colpo al cerchio e un colpo alla botte, magari complicandosi la vita come nel caso della riforma del Senato, e presentando piani economici possibili. Sì perché la straordinarietà di quello che presenterà Renzi questa sera, sarà l’ordinarietà con cui si poteva fare già da diversi anni e non si è fatto. Si dirà, bene, allora meno male che lo fa lui. Certo, da qualche parte bisogna pur cominciare, ma questi inizi li poteva fare anche Berlusconi a suo tempo, se non avesse intenzionalmente scelto (leggendo fra le righe i quotidiani dell’epoca) di far governare, nei suoi nove anni a Palazzo Chigi, Gianni Letta, suo eterno sottosegretario, l’uomo incaricato di pacificare il consiglio dei ministri col severissimo contabile Giulio Tremonti. Oppure li poteva fare Monti, che pure è liberale (Scelta Civica sosterrà l’Alleanza liberal democratica Europea) ma che contrariamente a quanto professano i liberali, s’è inventato una ricetta lacrime e sangue che ha dissanguato gli italiani. Letta, dal canto suo, è stato l’espressione di una politica impotente, incapace di rinnovarsi e rinnovare, compromesso dei compromessi, con un programma scritto dal Presidente della Repubblica, immobile su tutto, buono solo a perdere tempo.
Renzi, pur (ri)partendo da una manovra di palazzo, ha invece fatto quello che al paese mancava probabilmente dai tempi di De Gasperi (e che Dio mi perdoni per l’azzardo): ha incarnato una leadership nazionale, cosa che a Berlusconi, a parità di carisma, non riuscì per l’atteggiamento ostile di chi vedeva lui come un Mussolini mediatico. Il baldo Matteo invece, rompendo gli schemi tipici dei leaders di centro sinistra come Prodi o Letta, si dimostra furbo. Non si chiude nel recinto della maggioranza per non prestarsi ai ricatti dei piccoli e anzi, allarga l’orizzonte quando si tratta sulle riforme isituzionali. Atteggiamento rischioso, da equilibrista, ma sa che può farlo perché le elezioni i suoi avversari, anche quelli interni al Partito Democratico, non se le possono permettere, soprattutto con una legge elettorale in mezzo al guado (o alla palude, vedete voi). Sulle riforme economiche è la stessa cosa: di concerto coi suoi ministri fa esattamente quello che si poteva, o meglio, si doveva fare almeno tre anni fa (ed era comunque tardi): tagliare dove si può, quelle teste sacrificabili che per la politica non costituiscono voti cruciali. Ma nel 2012 con un governo tecnico appena insediato e una maggioranza tanto vasta quanto ballerina, le elezioni erano sempre sulla porta, non valeva la pena rischiare, anzi meglio lasciare che decine di italiani si suicidassero in nome dell’Europa che ce lo chiedeva, e si arrivasse all’esasperazione. Qui le elezioni non le vedremo fino al 2015 almeno e intanto, una fetta di consenso, il buon Matteo se l’è portata a casa e le europee lo confermeranno. Ed è proprio il consenso la chiave di volta degli ultimi 20 anni: nessuna maggioranza ha lavorato per conservarlo e la cosa si spiega col fatto che i ministri dell’economia, non sono mai stati, dal Berlusconi I a questa parte, dei veri politici. Neanche Padoan lo è, ma il verticismo voluto da Renzi nella conduzione del governo lo rende politico anche se politico non è.
E così siamo ai tagli possibili, quelli per i quali alcuni politici fingono di stracciarsi le vesti, ma sanno che non se lo possono più permettere. Lo “sforbicia Italia” è possibile perché si è arrivati alla constatazione che la ricreazione è davvero finita. Peccato che sempre quegli alcuni ci siano arrivati nel momento in cui sanno di essere al capolinea e si comportano come se il domani non fosse affare loro. Renzi, dal canto suo, fa quello che gli permettono di fare, consapevole che oltre a lui, sta salvando gli avversari, conscio che il paese, per il quale è prevista una crescita dello 0,8% e soprattutto che pagherà meno interessi sul debito per via dello spread basso, si riprenderà da solo. Come sempre.

Stefano Bonacorsi

Senato si senato no?

Pare la ripresa della canzone di Elio e le Storie Tese di qualche Sanremo fa, eppure è uno degli hastag di giornata. Questa mattina, a riguardo, volevo intervenire al dibattito della trasmissione Caterpillar AM, ma non ho fatto in tempo. Quello che non ho potuto dire in diretta lo dico ora, e cioè che la riforma del Senato della Repubblica, la politica ce l’ha davanti agli occhi, servita su un piatto d’argento, almeno da 13 anni, cioè dall’entrata in vigore della riforma del titolo V varata alla fine della XIII legislatura dalla maggioranza di Ulivista (Centro Sinistra per gli smemorati) dell’epoca. La risposta sta nell’articolo 117 della Costituzione, che stabilisce la legislazione esclusiva dello Stato, e quella concorrente Stato-Regioni. La XIV legislatura a guida Casa della Libertà- Lega Nord ha perso l’occasione di lavorare in continuità con quanto proposto preferendo complicare orrendamente le cose più di quanto non fece la maggioranza precedente (per inciso, il vecchio 117, quello pre- riforma, era di una chiarezza limpida e l’ordinamento repubblicano prevedeva già un ampia autonomia e non un feudalesimo repubblicano come quello attuale). Se avessero seguito la strada, per quanto brutta, tracciata con la riforma del 2001, la via più semplice per riformare il parlamento era, ed è, quella di dividere le competenze delle due camere sulla base del testo dell’attuale 117, e cioè alla Camera la legislazione esclusiva dello Stato (compresa la fiducia al governo) e al Senato quella concorrente, magari facendo in modo che lo stesso Senato vigili sui bilanci regionali al fine di evitare le voragini finanziarie che hanno caratterizzato le legislature dei vari feudatari (o governatori, anche se sarebbe corretto chiamarli Presidenti di Regione); motivo per il quale sarebbe meglio che il Senato continuasse ad essere elettivo, per lo meno parzialmente fissando un tetto di 100 senatori tra cui i 20 presidenti delle regioni la cui elezione li proietterebbe di diritto in Senato eliminando quel carrozzone che è la conferenza stato-regioni. L’idea di per se mi pare buona, e abbastanza rapida da approvare qualcuno mi aiuta a farla recapitare sul tavolo delle riforme costituzionali?

Stefano Bonacorsi

Disappunto

Premetto, a me Fiorello è simpatico e trovo la sua “Edicola Fiore” molto divertente, così come sono divertenti le sue imitazioni di Alfano e Chiara Galiazzo. Però dopo la puntata di oggi esprimo un disappunto: è già la seconda volta che lo sento esternare opinioni pro Fabrizio Corona circa la durezza della detenzione di questo ambiguo soggetto. Si vede che al signor Fiorello Rosario non è toccato di incappare nella macchina del ricatto di Corona o in un qualsiasi suo affare. Non è affar mio. Va da se però che Corona è a tutti gli effetti un criminale, tra l’altro in condizione di privilegio perché gode di copertura mediatica e anzi, è famoso per questo, è cool! E se il soggetto Corona ha accumulato diverse condanne in via definitiva (si legga a questo link per un semplice riassunto) un motivo ci sarà e gli atti giudiziali parlano da soli. I reati sono tali in quanto previsti dal codice penale, lo stesso vale per le pene. In teoria non dovrebbero esistere condanne di serie A o di serie B anche se, limitandoci alla storia italiana, la realtà è un altra. Corona è un criminale, e un pessimo esempio. Fiorello lo sdogana dicendo “chi sbaglia deve pagare ma il giusto”, ma il giusto, secondo la legge, è quanto gli è stato assegnato. Il punto è che Corona approfitta della sua visibilità, del il suo profilo da rock star maledetta, per passare da carnefice a vittima. E’ un criminale quindi, ma lo è meno di altri e attira pure simpatie anzi, molte donne ci farebbero più di un tuffo tra le lenzuola. Le esternazioni di Fiorello a suo favore in diretta su Radio 2 mi disturbano, e fanno parte del suo gioco. E si tira fuori persino il fatto che ci sono mafiosi o politici (curioso che il sinonimo di politico sia criminale) che fanno peggio di lui. Il fatto è che lui non è Berlusconi, diversamente le esternazioni a suo favore di un signor Tal dei Tali qualunque in diretta su una radio qualunque farebbero molto più rumore, pure polemica si griderebbe al regime. Corona invece non viene neanche considerato un delinquente anche se i fatti dicono il contrario. E’ tempo di riflettere su una società che considera certi criminali come delle celebrità perseguitate e invece prende di mira solo certe categorie, in base al guitto di turno.

Stefano Bonacorsi

https://www.youtube.com/watch?v=KmPpdtYPy9Q#t=234

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