Rusty Cage

PROLOGO

Provincia estrema. Quell’estremo che fa si che tu non viva in capoluogo ma in una frazione, dispersa tra chilometri di curve, prati in pendenza, boschi e piccoli borghi che si susseguono attorniati da strade vicinali.
I segnali radio in fm trasmettono radio locali, ignori che cosa sia la differenza tra mainstream e indie, non sai cosa sia Videomusic che poi diventerà Tmc2, evolvendosi poi in All Music, poi Deejay TV e oggi Nove. Ignori cosa sia Rete A-Mtv, poi solo Mtv e oggi Canale 8. Lo ignori perché il segnale analogico prende solo la Rai, quindi non sai cosa passa Mediaset  e degli altri canali hai solo sentto parlare. Hai un’antenna parabolica con segnale analogico che, nel giro di due anni diventa obsoleta e quindi, dopo due anni, perdi di nuovo i contatti con la civiltà.
L’adolescenza ha il suono della banda del paese, di qualche cassetta che gira per casa, portata da Modena dal fratello più grande. Non sai niente, non sei niente. E per diversi anni non te ne importerà niente.
Poi accade che un giorno a scuola, all’inizio della quinta superiore, cominci a curiosare. Non che tu non l’abbia mai fatto prima, anzi un preludio c’è stato, qualche cd passato dal compagno di banco, l’infilarsi nelle conversazioni musicali altrui, lo scoprire l’esistenza di un tessuto di piccoli gruppi che suonano e hanno un loro seguito… il mondo ha una forma che non ti aspetti.
Così scopri che una copertina di una rivista musicale che non esiste più, celebra i dieci anni di “Nevermind” e ti spolpi quell’articolo come se non ci fosse un domani. Anni dopo a rileggerlo ti sembrerà tremendamente adolescenziale. Guarda un po’.

PAVULLO – ABERDEEN – PAVULLO

Pavullo nel Frignano non è esattamente Aberdeen, e Modena non è precisamente Seattle. Anche se, quanto a umidità, se la possono battere alla grande.
Eppure c’è qualcuno che ci ha sperato nel fatto che, svalicando il Carrai, si potesse raggiungere la terra promessa del Grunge, vuoi per imitazione, vuoi anche solo perché è quello che ti resta anche se hai solo 19 anni e sei prossimo alla maturità.
Le cronache locali, che nel frattempo hai assorbito, ti parlano di un gruppo leggendario o che per lo meno di sembra tale, i Caduta Massi, il cui cantante ha fatto una tragica fine, inseguito da troppi demoni. Anni dopo, quando il cerchio intorno a quell’alone di mitologia si restringerà, fino a farti conoscere i protagonisti di quella breve epopea che portò Pavullo alla ribalta nell’indie rock italico, ti sembrerà una drammatica continuità che il nipote di quel cantante, promettente scrittore, sceglierà di inseguire quello zio che non aveva mai conosciuto. E settembre non sarebbe più tornato.

L’inizio del millennio promette speranza, nel 2002 non lo sai ancora, ma di lì a sei anni ci si infilerà dentro ad una spirale negativa dalla quale ancora si fatica a uscire oggi. L’Italia è a crescita demografica zero ed economica a zero virgola; ma abbiamo chi ci promette un nuovo miracolo economico. Il suono è quello di un inno nazionale che dev’essere cantato perché il Presidente della Repubblica lo esige come decoro per una nazionale di calcio che colleziona una figura di merda plateale contro la Corea del Sud. L’arbitraggio osceno ci da una mano a nascondere l’impotenza di una squadra che avrebbe le credenziali per macellare ogni avversario. E’ il mondiale più brutto che si ricordi. Quattro anni dopo Cannavaro avrebbe alzato la coppa a suon di “Seven Nation Army”.
E il Grunge? Kurt Cobain non è stato troppo amato da queste parti, troppo “patinato” roba da poppanti. Qui hanno trionfato Layne Stanley e gli Alice in Chains e, più di tutti, i Pearl Jam, non avrai altro dio all’infuori di Eddie Vedder. Se parli di Soundgarden “Superunknow” è bello ma si sono già venduti, vuoi mettere “Badmotorfinger”?
Però nel frattempo sei cresciuto, basta con le riviste di rock gossipparo, leggi roba seria e impari che, il disco dei Soundgarden da ascoltare per imparare qualcosa è “Louder than Love”, l’album che fece sì che la critica del tempo li definisse come i “Led Sabbath”. Però quei suoni sono quelli di chi ascolta in camera, con la cuffia per non disturbare, e fa prove tecniche di scrittura, perché un giorno si augura che qualcuno leggerà le sue parole. E chissà che non siano proprio quelle che parlano di un album rock di un periodo storico, di una voce. Perché poi sono arrivati gli Audioslave, quando il crossover dei Rage Against the Machine era già storia e il Grunge gli si era sviluppato accanto e poi era andato a morire come una miniera di carbone abbandonata. Perché il primo dei RATM, Badmotorfinger, Nevermind e Ten, erano album che sono venuti fuori insieme a cavallo tra il 1991 e il 1992. E di lì a un anno un gruppo di nome Timoria proverà a inserirsi in uno “spaghetti grunge”lanciando l’inno “Senza Vento” (altro che il “Male di Miele” di chi anni dopo sarebbe finito giudice a Xfactor…). Storia appunto. E gli Audioslave erano il gruppo di chi era stato piccolo per il Grunge e la Guerrilla Radio, ma era pronto ad assistere alla stesura di una nuova pagina di Storia. Perché non ne potevi più di sentir parlare solo dei supergruppi degli anni settanta e sentir dire che “eh, ma allora era un’altra cosa”. Volevi il tuo pezzo di storia da vivere, da testimoniare. Ma era solo un’altra fine.

EPILOGO

La morte di Cornell passa nelle news di Windows Edge. Sei incredulo, cazzo, pensi, eccone un’altro. E se almeno all’inizio speravi che fosse il malore di chi in vita non si è risparmiato niente, quando impari che è l’ennesimo suicidio eccellente allora ti arrendi. E preghi, perché nel frattempo hai ricominciato a farlo. Preghi per un po’ di pietà, preghi perché quei suoni che un tempo erano cari, oggi ti mettono solo una tetra inquietudine. E se i tuoi ricordi sono solo quelli di quando eri chiuso in camera, dove suonavi la tua chitarra d’aria e immaginavi di avere davanti una folla di ragazze che ti osannavano mentre cantavi “Black Hole Sun”; se i tuoi ricordi si fermano a quando nel tuo pub preferito partiva a tutto volume “Superunknow”, o ancora a quando, durante l’università, non volevi lasciare il tuo alloggio fino a quando su uno di quei canali musicali non passava il video di “Like a Stone”; o ancora a quando con orrore guardavi la brutta fine che aveva fatto Cornell, rivolgendosi a Timbaland come produttore per fare quel… boh che era “Part of me”; quei ricordi sono soprattutto ricordi. E quando una radio che non ascolti perché la trovi insopportabile, trasmette “Black Hole Sun” per rendere omaggio al defunto, e ti viene un nodo in gola, capisci che hai un graffio nel cuore. Un altro ancora, uno in più. Ma quella gabbia rugginosa, almeno l’hai aperta.

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Ti avrei voluto bene

Che importanza ha il tempo, adesso che settembre non tornerà più? Sono arrivato tardi, ma non troppo, sono rimasto in disparte, non ho voluto subito unirmi ai saluti sai, dovevo mettere insieme i ricordi. Ricordi che iniziano in una birreria che hai frequentato anche tu. Parlavo col bassista dei Caduta Massi o meglio, quella sera capii che un compagno di bevute aveva fatto parte di quel gruppo, dall’alone mitico, che non avevo mai sentito, ma di cui avevo sentito parlare quando misi piede alle superiori a Pavullo. Mi parlò di te, del tuo libro che riprendeva anche un fatto tragico e che oggi mi fa pensare che, dannazione, il sangue non mente. Mai.
Poi ti conobbi, non ricordo quando però ricordo la mia diffidenza, come sempre, come con tutti nella mia illogica paura del mondo. Ricordo i punti in comune sulle riviste musicali, sul fatto che ti chiesi consiglio per pubblicare, e le discussioni sui Gang. Li consideravi patetici, io tuttora li difendo a oltranza.
Ricordo che sei venuto ben due volte a vedermi leggere, quando ero negli OceanoBar, la seconda volta era il giorno prima della mia laurea e, sapendo questo sorpresa delle sorprese, sei passato a salutarmi, a congratularti con me e, dannazione, avessi una foto di quel momento. Non ricordo nemmeno se eri passato prima o dopo la mia discussione, non ha importanza. Io non sono mai venuto a sentirti, nemmeno quando eri a un passo da casa mia. E l’ultima volta che ci siamo incontrati, mi hai chiesto quando sarei passato a leggere qualcosa a “Emilia Ruvida”. Ti dissi che avevo sospeso un po’ tutto e sai, devo ancora riprendere.
Ora son qui, a ricordarti nell’unica conversazione semiseria che abbiamo fatto, tu fresco vincitore di concorso letterario, io aspirante giornalista rimasto tale. Tempo dopo mi hai consigliato, incrociandomi nella biblioteca in cui lavoravi “Azzurro tenebra” di Giovanni Arpino. Ora sono obbligato a finirlo, te lo devo.
Ricordo i tuoi post, a volte provocazione pura e gratuita, ma esilaranti. Ricordo la tua ammirazione per Giovanni Lindo Ferretti e ricordo (perché lo scrivevi) la suggestione che provavi per la sua conversione. Confesso che il desiderio che avevo, era di parlarti della mia di conversione. Beh, ora lo sai di certo.
Direi di avere finito. E’ stato un piacere incontrarti e non ti nascondo che mi hai tolto il gusto che potesse capitare di nuovo. Non ho una frase ideale da dedicarti, in fondo ci conoscevamo appena. Spero che un ciao ti basti anche se, e non ti nascondo nemmeno questo, avrei voglia di mandarti a quel paese. Ti stimavo e, se fossimo stati amici, ti avrei voluto bene.

storia di una storia

Si può scadere nella retorica? Se la risposta è no è affar vostro, a questo giro ci finisco dentro a piedi pari. Oggi (è ancora il 2 giugno quando inizio questo post) ero in viaggio in pullman e, a differenza di altri giorni di festa in cui mi scordo volontariamente di avere una vita social, clicco l’icona di Facebook sul mio smartphone e, passate in rassegna le notifiche, curioso le vite degli altri. Incappo in un post che mi insospettisce assai, di un conoscente che commemora un suo cugino che conosco assai meglio. Basito indago, il profilo di questa persona è pieno di “R.I.P”, al che sguinzaglio i cani e via whatsapp chiedo notizie più approfondite. Poi scorro ulteriormente la bacheca e, volente o nolente, mi trovo davanti a questo articolo.

Dicono che quando muori ti passa la vita davanti, ma non ho mai conosciuto nessuno che me lo potesse raccontare. Di certo so, che quando muore qualcuno che conosci e col quale hai condiviso qualcosa ti passa davanti la vita che hai incrociato con lui. E se penso a quando la mia penna ha incrociato quella di Francesco, mi passano davanti i miei sette anni di presunto giornalismo: l’ho conosciuto da neo corrispondente della Gazzetta di Modena, mentre lui, transfugo del Resto del Carlino, collaborava con “L’Informazione di Modena”. Poi, in concomitanza con la chiusura de “L’informazione” passava in Gazzetta mentre io lentamente ne uscivo, autocongolato nel mio ruolo di corrispondente, anche se sarebbe meglio dire demotivato e approdato su altri lidi (e impieghi).
Scongelata la propensione alle corrispondenze, le nostre strade si sono incrociate nuovamente nel mio anno a “Modena Qui” per poi incontrarsi, a seguito della chiusura della testata, in altri ambiti lavorativi.
Quasi colleghi, mai (purtroppo) amici nel senso vero che si da a questo termine. Buoni conoscenti, leali, ci siamo scambiati un paio di fonti e foto, qualche battuta e commenti sparsi. Vita vissuta nei meandri di un Appennino che ci piaceva raccontare assieme agli altri colleghi con cui ci si trovava a un convegno, un consiglio comunale, una conferenza stampa, uno spoglio elettorale. 
Ora è solo la storia di una storia, la foto di una notizia che se l’avessi voluta leggere, avrei voluto aspettare almeno altri 44 anni e almeno altri corrispondenti per raccontarla. E invece resta l’amarezza, il ricordo di averti letto non più tardi di ieri e un ultimo incontro, informale e casuale, io a ritirare la mia prima lavatrice (stavo traslocando) e tu che andavi in uno dei tanti uffici che il tuo lavoro, quello al quale affiancavi le corrispondenze, ti portava a visitare. Uno scambio di battute, le previsioni sulla stagione turistica che sarebbe stata e poco altro, non ricordo se c’eravamo scambiati gli auguri di Natale, forse si. Forse. Importa poco ora che non potrò più dire “vediamo cosa ha scritto Chicco” quando in un bar, per prendere un caffè mi troverò davanti la Gazzetta e mi resterà l’amarezza di un saluto che non ho fatto, di un punto di vista col quale non potrò più confrontarmi.
E dire che in confronto al cugino di cui sopra, o di tua moglie o dei tuoi cari, il mio dolore è solo quello di chi si vede passare accanto sette anni di una vita neanche troppo parallela, ma solo un gioco dove protagonisti sono penne, fogli, computer e tablet. Bazzecole, eppure c’è un pezzo di me che se ne va insieme a te, e non posso fare a meno di scriverlo con una valanga di retorica perché, e lo sai bene, in questi casi non c’è altro modo.
E allora ciao Francesco, e grazie per quel poco che ci siamo scambiati. Inutile dire che mi mancherai, e mi mancheranno i tuoi pezzi. L’Appennino e i suoi racconti non saranno più gli stessi.
Stefano

Saluto a Robin Williams

Passo davanti a un televisore e rivedo la fine de “L’Uomo Bicentenario”. Mi si stringe il cuore, non solo per il film in se, ma anche per l’uomo, l’attore, che non c’è più, distrutto dalla depressione, incapace di ancorarsi a quella voglia di vivere che ci aveva trasmesso coi suoi film. Non ha retto, al pari dello studente suicida de “L’attimo fuggente”, ha ringraziato e ha preso la porta, nel modo in cui tutti meno se lo aspettavano. Quel sorriso malinconico, quella incredibile versatilità. Uno non pensa a quanto un attore è passato nei suoi occhi, a quanto i vari film abbiano lasciato nella sua mente e nei suoi ricordi, fino a che questo scompare. E di colpo, l’attimo è fuggito e con lui l’uomo bicentenario, Flubber, Patch Adams, un redivivo Peter Pan, Mrs Doubtfire, Jumanji e non ricordo quali altri, ma adesso lui è lì, al di là dei sogni, come in quella omonima pellicola. E’ lì con Philip Seymour Offman, suo rivale/amico in Patch Adams, un altro di quelli che ti accorgi solo dopo che se n’è andato che l’hai visto in un sacco di film…
E ora teniamoci i ricordi in celluloide, quei film non saranno più gli stessi, avanzando con gli anni ce ne faremo una ragione. Grazie Robin, per le risate e le emozioni. Mi auguro tu possa aver ricevuto un riconoscimento, per quello che ci hai dato in terra. So long.

Stefano

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