Integrazione alla rassegna ad alta quota del 1 giugno 2020

Probabilmente sbaglierò, ma mi son rotto le scatole di un certo tipo di narrazione. Posto che per trovare notizie di politica estera degne di questo nome, in Italia devi scovarle con il lanternino, la vicenda di #GeorgeFloyd e dei risvolti che sono più sociali che non razziali, sta stufando, non tanto per la questione relativa agli scontri in sé, quanto per la narrativa che l’accompagna. E purtroppo, mi duole dirlo, occorrerebbe che per queste cose si leggessero meno riviste di basket e più riviste di geopolitica. Lo dico a malincuore perché il basket è il mio sport preferito, ma non posso vedere i vari siti che seguo riportare le dichiarazioni di un Michael Jordan, che a suo tempo disse “anche i repubblicani comprano scarpe” ed è la dimostrazione di come i neri si siano potuti imporre grazie al talento, e che oggi dice, dall’alto dei suoi milioni di dollari, che il suo cuore è con la famiglia di Floyd.
Ribadisco un concetto di base: Floyd è morto per un abuso di potere da parte di un poliziotto che forse non andava bene neanche a fare il netturbino. E se vi occorrono notizie su come sia impostata la polizia e il governo del Minnesota, date una letta a questo articolo di Michael Sfaradi.
Ritengo però, al netto della libertà di espressione, che ognuno dovrebbe fare il suo mestiere: Popovich e Kerr gli allenatori, LeBron James il giocatore, Kareem Abdul Jabbar l’all-star in pensione e, soprattutto, i giornalisti italiani dovrebbero smetterla di ambire ad essere Federico Buffa a tutti i costi e occuparsi del Gioco e non della Geopolitica di cui non sanno nulla. L’Nba a oggi risulta essere il paradiso dell’ipocrisia politicamente corretta, quando all’epoca di Jordan era il paradiso del trash talking (guardatevi The Last Dance in modo critico, o fate i fighi solo quando c’è da parlarne bene?) e soprattutto non era quella spocchia benpensante che oggi offre spettacoli circensi per famiglie, ma storie di ghetto. I bad boys vi dicono nulla? Allen Iverson che oggi fa l’impegnato (forse a causa di un conto in banca che langue) ma che al tempo durante una finale passava letteralmente sopra a Tyron Lue vi sembra qualcosa di immaginabile oggi?
E’ facile parlare seduti sopra i propri conti correnti milionari, sapendo che la protesta sociale non invaderà i vostri villoni sulla west coast. E’ facile schierarsi contro Trump che può piacere o non piacere, ma non è responsabile dell’omicidio Floyd e dal suo essere un buzzurro, altro non è che uno che parla all’America profonda, quella che i neri più milionari che integrati, si sono dimenticati.
Poi ci sta che si prenda posizione. E voglio dire una volta di più che noi, dalle nostre case di provincia, da lettori distratti di Tex Willer, emulatori di spaghetti western, sognatori da “On the road” senza averlo mai finito di leggere, non abbiamo la più pallida idea di che cosa sia l’America, di che cosa siano gli Stati Uniti, di che cosa ci sia veramente di là dall’oceano. L’America può assomigliare a una puntata di Law & Order ma non a una di Sex & the City. Diversamente avremmo serie tv e film ambientati nel Colorado o nell’Iowa, stato che sentiamo nominare solo quando cominciano le primarie democratiche. Lì si che avremmo forse una maggiore idea di che cosa possa significare. Ma finché ci fermeremo ai dischi di Springsteen, a cantare “Sweet Home Alabama” senza capirne il vero significato e a credere che il conflitto razziale sia solo Muhammad Alì che non vuole andare in Viet Nam, cari miei, siamo lontani un bel pezzo.
Evitate letture distorte. Meno tweet di LeBron (con tutto il rispetto) e un po’ più di Federico Rampini.

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