
Gianni Galeotti per La Pressa
L’altra sera, dopo avere letto la breve storia sulla nascita di Modena Radio City che Carlo ci ha lasciato postato sul suo profilo Facebook, volevo chiamarlo, per chiedergli se avrei potuto pubblicarla. Qui, su La Pressa. Perché era bella, vera. Quella storia di cui molti 40 o 50enni di oggi conoscono il seguito, quello degli anni ’80, ’90, ma non l’inizio. Quella storia che più volte avevo sperato raccontasse, che in passato gli avevo detto (non chiesto), sarebbe stato bello raccontare. Nero su bianco però, non a voce. In modo che rimanesse lì, scolpita, a futura memoria. Anche a grandi pennellate. L’altra sera non gli mandai nemmeno un messaggio, per dirglielo, ma Carlo continuò stranamente ad essere lì. Riflesso con le stesse pennellate, con quei fulminei flash di vita, di libertà, di pionierismo, in quel film che stavo guardando: C’era una volta a Hollywood. Perché erano quei colori, quelle atmosfere, quei dettagli, che nei film di Tarantino sono sempre nuovi anche alla terza, quarta visione, che si rifletteva ciò che Carlo, per come molti lo hanno conosciuto, ci ha saputo trasmettere. Con il suo essere, forse più che con le sue foto. Quel mondo fatto di giovani liberi, di auto enormi e costose, che Carlo amava e che in parte aveva anche avuto, sulle quali, faccia al vento, sfrecciavano verso un futuro sconfinato negli slanci e nelle possibilità, generazioni di cappelloni, accompagnati sempre da musica diffusa dalle prime autoradio e dalle prime radio libere che avevano negli speaker americani, così come poco dopo successe in Italia, delle vere e proprie star. Bene, Carlo era quello o, meglio, era anche quello. Era quello spirito, era quell’atmosfera, era quello slancio che con il suo essere, seppe assorbire, trapiantare e fare crescere qui, a Modena, nella nostra città. Decodificando quella visione d’oltre oceano nello spirito modenese. Nella Modena capace, pur nel suo piccolo, di fare tendenza, di essere Centro, di fare cose grandi. Come la radio. Che non a caso nacque con Vasco, a Zocca e con Carlo, con Modena Radio City, che nel nome richiamava quel famoso locale newyorkese, il music hall, con la sola aggiunta di Modena. Che non era poco. L’America delle radio libere portata qui. In questo senso Carlo Savigni non era un innovatore nel senso stretto, ma lo era nel momento in cui, dopo avere assorbito e riprodotto stili, tendenze, progetti, arrivava al punto da potersi permettere di imprimere il suo timbro, dare il suo marchio. Fu così, e lo dichiarò più volte, per la fotografia, e fu così per la radio. In tutti i suoi aspetti. Dagli speaker ai jingle, dai compressori per il suono ai microfoni alle cuffie. Che non capii mai come facesse a tenere così alte nel volume, pur non essendo sordo. Quando nel 1993 tornai da un viaggio negli Stati Uniti (regalo che mi feci per una laurea ormai conquistata), e con uno zaino pieno di musicassette sulle quali avevo registrato centinaia di stacchi e di jingle dei network radiofonici americani, passammo giornate, insieme ad Enrico Pagliarini, ad ascoltarle. Malati, di radio. Le radio americane continuavano a fare scuola, ad essere un riferimento, almeno per noi, ma non c’erano internet e altre possibilità per ascoltarle se non andando là. Io passai metà dei quindici giorni trascorsi negli States ad ascoltare radio e a registrare jingle. Gli amici mi compatirono, Carlo e Paglia mi capirono.
Carlo poteva permettersi il meglio, riusciva a farlo suo e a personalizzarlo. Aveva sempre l’ultima tecnologia disponibile e ci accompagnò nel passaggio dalle jingle machine, con cassettoni a nastro riavvolgibile in automatico con le quali si facevano partire le pubblicità ad una ad una con un dito che premeva su bottoni analogici che potevano anche incastrarsi, ai PC, dai vinili ai compact disc, dalle scalette create sulla base della propria fantasia o quella degli ascoltatori alle programmazioni con gli algoritmi di oggi.
La sua voce aveva un timbro speciale, così del resto lo era quella di Chicca e di Enzo (Natali) che magari, caro Carlo, ti saluterà con un sorriso. Anche lui ci ha lasciato a 78 anni. Voci che grazie ad una banda FM che negli anni ’70, quando Radio City nacque, era sostanzialmente vuota, era possibile ascoltare anche durante le vacanze in Trentino. Perché dalla serie di dipoli delle antenne fissate su un traliccio a Serramazzoni le onde, senza interferenze, arrivavano fino là. Piene di suono, piene di musica, piene di una Modena che grazie a persone come lui era davvero sempre avanti e che ai tempi ci riempiva di tanto orgoglio. Di Carlo ammiravano e oggi, nel giorno dell’addio formale, molti di noi ricordano e mi piace ricordare la passione per la musica e il suono. La sua discografia personale prima in vinile poi in digitale, era sterminata, così come la sua conoscenza ma altra cosa che lo rendeva unico era la passione che aveva per la qualità del suono. Altra cultura persa, o meglio, ridotta ad una vera nicchia di audiofili. Prima con gli ampli analogici poi con quelli digitali. Era capace di passare ore a tarare, con spostamenti millimetrici di minuscoli pomellini, i compressori audio della radio. Guardando l’Orban come fosse un oggetto di culto. Un lavoro certosino, che ti manda in palla, da orecchio speciale. Come lui aveva, del resto. E che se non ce l’hai, non ce la fai. Capace di percepire le sfumature dei suoni degli amplificatori con standard inglesi, americani o giapponesi. E poteva parlartene, a lungo. Ricordo il ritorno in radio, dopo un periodo di assenza. Strepitoso con Sotto a chi Tocca, di cui la radio aveva fatto anche le magliette e le conduzioni a due con quel gigante buono di Victor Sogliani, dell’Equipe ’84 di cui Carlo era fotografo ufficiale. E si potrebbe, usando una frase fatta, parlarne per ore. Perché Carlo era ben più di un grande testimone di un’epoca, di una Modena davvero grande, Carlo Savigni era una epoca. Non faceva radio, era la radio. Per questo mi è dispiaciuto tanto quando lasciasti che la tua creatura, MODENA Radio City, fosse abbandonata in altre mani, mani che non la amavano e che le hanno tolto prima l’anima, poi il nome. Ma va bene così. Le cose accadono e ora basta. Arrivederci vecchio’