Carlo era la radio, e ci portò l’America, con lui se ne va un piccolo mondo

Carlo Savigni (1944-2022) fondatore di Modena Radio City

Gianni Galeotti per La Pressa

L’altra sera, dopo avere letto la breve storia sulla nascita di Modena Radio City che Carlo ci ha lasciato postato sul suo profilo Facebook, volevo chiamarlo, per chiedergli se avrei potuto pubblicarla. Qui, su La Pressa. Perché era bella, vera. Quella storia di cui molti 40 o 50enni di oggi conoscono il seguito, quello degli anni ’80, ’90, ma non l’inizio. Quella storia che più volte avevo sperato raccontasse, che in passato gli avevo detto (non chiesto), sarebbe stato bello raccontare. Nero su bianco però, non a voce. In modo che rimanesse lì, scolpita, a futura memoria. Anche a grandi pennellate. L’altra sera non gli mandai nemmeno un messaggio, per dirglielo, ma Carlo continuò stranamente ad essere lì. Riflesso con le stesse pennellate, con quei fulminei flash di vita, di libertà, di pionierismo, in quel film che stavo guardando: C’era una volta a Hollywood. Perché erano quei colori, quelle atmosfere, quei dettagli, che nei film di Tarantino sono sempre nuovi anche alla terza, quarta visione, che si rifletteva ciò che Carlo, per come molti lo hanno conosciuto, ci ha saputo trasmettere. Con il suo essere, forse più che con le sue foto. Quel mondo fatto di giovani liberi, di auto enormi e costose, che Carlo amava e che in parte aveva anche avuto, sulle quali, faccia al vento,  sfrecciavano verso un futuro sconfinato negli slanci e nelle possibilità, generazioni di cappelloni, accompagnati sempre da musica diffusa dalle prime autoradio e dalle prime radio libere che avevano negli speaker americani, così come poco dopo successe in Italia, delle vere e proprie star. Bene, Carlo era quello o, meglio, era anche quello. Era quello spirito, era quell’atmosfera, era quello slancio che con il suo essere, seppe assorbire, trapiantare e fare crescere qui, a Modena, nella nostra città. Decodificando quella visione d’oltre oceano nello spirito modenese. Nella Modena capace, pur nel suo piccolo, di fare tendenza, di essere Centro, di fare cose grandi. Come la radio. Che non a caso nacque con Vasco, a Zocca e con Carlo, con Modena Radio City, che nel nome richiamava quel famoso locale newyorkese, il music hall, con la sola aggiunta di Modena. Che non era poco. L’America delle radio libere portata qui. In questo senso Carlo Savigni non era un innovatore nel senso stretto, ma lo era nel momento in cui, dopo avere assorbito e riprodotto stili, tendenze, progetti, arrivava al punto da potersi permettere di imprimere il suo timbro, dare il suo marchio. Fu così, e lo dichiarò più volte, per la fotografia, e fu così per la radio. In tutti i suoi aspetti. Dagli speaker ai jingle, dai compressori per il suono ai microfoni alle cuffie. Che non capii mai come facesse a tenere così alte nel volume, pur non essendo sordo. Quando nel 1993 tornai da un viaggio negli Stati Uniti (regalo che mi feci per una laurea ormai conquistata), e con uno zaino pieno di musicassette sulle quali avevo registrato centinaia di stacchi e di jingle dei network radiofonici americani, passammo giornate, insieme ad Enrico Pagliarini, ad ascoltarle. Malati, di radio. Le radio americane continuavano a fare scuola, ad essere un riferimento, almeno per noi, ma non c’erano internet e altre possibilità per ascoltarle se non andando là. Io passai metà dei quindici giorni trascorsi negli States ad ascoltare radio e a registrare jingle. Gli amici mi compatirono, Carlo e Paglia mi capirono.

Carlo poteva permettersi il meglio, riusciva a farlo suo e a personalizzarlo. Aveva sempre l’ultima tecnologia disponibile e ci accompagnò nel passaggio dalle jingle machine, con cassettoni a nastro riavvolgibile in automatico con le quali si facevano partire le pubblicità ad una ad una con un dito che premeva su bottoni analogici che potevano anche incastrarsi, ai PC, dai vinili ai compact disc, dalle scalette create sulla base della propria fantasia o quella degli ascoltatori alle programmazioni con gli algoritmi di oggi.

La sua voce aveva un timbro speciale, così del resto lo era quella di Chicca e di Enzo (Natali) che magari, caro Carlo, ti saluterà con un sorriso. Anche lui ci ha lasciato a 78 anni. Voci che grazie ad una banda FM che negli anni ’70, quando Radio City nacque, era sostanzialmente vuota, era possibile ascoltare anche durante le vacanze in Trentino. Perché dalla serie di dipoli delle antenne fissate su un traliccio a Serramazzoni le onde, senza interferenze,  arrivavano fino là. Piene di suono, piene di musica, piene di una Modena che grazie a persone come lui era davvero sempre avanti e che ai tempi ci riempiva di tanto orgoglio. Di Carlo ammiravano e oggi, nel giorno dell’addio formale, molti di noi ricordano e mi piace ricordare la passione per la musica e il suono. La sua discografia personale prima in vinile poi in digitale, era sterminata, così come la sua conoscenza ma altra cosa che lo rendeva unico era la passione che aveva per la qualità del suono. Altra cultura persa, o meglio, ridotta ad una vera nicchia di audiofili. Prima con gli ampli analogici poi con quelli digitali. Era capace di passare ore a tarare, con spostamenti millimetrici di minuscoli pomellini, i compressori audio della radio. Guardando l’Orban come fosse un oggetto di culto. Un lavoro certosino, che ti manda in palla, da orecchio speciale. Come lui aveva, del resto. E che se non ce l’hai, non ce la fai. Capace di percepire le sfumature dei suoni degli amplificatori con standard inglesi, americani o giapponesi. E poteva parlartene, a lungo. Ricordo il ritorno in radio, dopo un periodo di assenza. Strepitoso con Sotto a chi Tocca, di cui la radio aveva fatto anche le magliette e le conduzioni a due con quel gigante buono di Victor Sogliani, dell’Equipe ’84 di cui Carlo era fotografo ufficiale. E si potrebbe, usando una frase fatta, parlarne per ore. Perché Carlo era ben più di un grande testimone di un’epoca, di una Modena davvero grande, Carlo Savigni era una epoca. Non faceva radio, era la radio. Per questo mi è dispiaciuto tanto quando lasciasti che la tua creatura, MODENA Radio City, fosse abbandonata in altre mani, mani che non la amavano e che le hanno tolto prima l’anima, poi il nome. Ma va bene così. Le cose accadono e ora basta. Arrivederci vecchio’

Pubblicità

Scenari elettorali, l’ascesa di Giorgia Meloni

Giorgia Meloni leader di Fratelli d’Italia

di Stefano Bonacorsi per Caratteri Liberi

Tra meno di un anno, se non ci saranno particolari sconvolgimenti, gli italiani torneranno a votare per le elezioni note come “politiche”, che in altri paesi vengono rubricate a generali o legislative. In  soldoni, le elezioni per il Parlamento.

Quasi sicuramente, sarà difficile vedere le compagini che hanno caratterizzato questa infausta diciottesima legislatura, recitare un ruolo da protagonisti, e tanti fattori ce lo stanno mostrando. Fattori che andremo a snocciolare in più tappe, forse con troppo anticipo rispetto alla scadenza naturale della legislatura, ma dato lo stato attuale del Governo e della maggioranza che lo sostiene, tanto presto non è.

Senza dubbio, protagonista della prossima campagna elettorale e, conseguentemente dello scenario che si andrà a comporre tra Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, sarà Giorgia Meloni, col suo partito Fratelli d’Italia che è dato in un testa a testa col Partito Democratico nei sondaggi. E’ indubbio che sia l’unico partito che, rispetto alle ultime elezioni, avrà una crescita a dir poco esponenziale, tuttavia ci sono alcuni fattori che non sono da trascurare, che possono trarre in inganno.

Innanzi tutto, Fratelli d’Italia non è un partito anti-establishment. E’ nipote del Movimento Sociale Italiano e, di fatto, figlio di quel matrimonio forzato tra Forza Italia e Alleanza Nazionale (erede del MSI) che fa sì che il mondo che ruota intorno a Meloni e ai suoi, in realtà è protagonista della scena politica italiana per lo meno dal 1994, anno in cui i post-fascisti sono entrati nella stanza dei bottoni. L’eterna paranoia da svolta autoritaria che caratterizza lo scenario politico tricolore, vuole che ci debba essere una destra necessariamente anti-fascista, chiaramente col patentino rilasciato da chi ruota intorno al mondo del Partito Democratico e degli anti fascisti di professione. Alessandro Sallusti, direttore di Libero, ha ammonito più volte Giorgia Meloni e Matteo Salvini di non farsi dettare l’agenda, ma soprattutto i valori di quella che dovrebbe essere la destra italiana, dalla sinistra. 

Pur non avendo fatto questo, nella convention di Milano tenuta a fine aprile, Meloni ha voluto integrare nel panorama di Frateli D’Italia, l’ex magistrato Carlo Nordio (candidato anche al Quirinale da Meloni) Marcello Pera e Giulio Tremonti, entrambi ex di Forza Italia, il secondo anche molto vicino a intese con la Lega all’epoca ancora a guida Bossi. Milano, cuore pulsante del potere economico e della borghesia italiana, lo strizzare l’occhio al centro moderato per poter uscire dal lato destro e non essere solo il vaso comunicate che raccoglie gli esuli forzasti e leghisti.

Ma il processo di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia per non rimanere un marginale partito etichettato come nostalgico, è passato anche dall’estero: dopo le europee del 2019, con il movimento già in crescita, è diventata presidente dei conservatori al Parlamento Europeo, segnando un percorso diverso rispetto all’alleato Matteo Salvini, impantanatosi con Marine Le Pen nel sovranismo. Inoltre Meloni è da due anni presenza fissa al Conservative Politica Action Conference negli Stati Uniti. Non è ufficialmente la referente di Trump e del GOP in Italia, tuttavia il suo movimento è quello che si avvicina di più a quel mondo.

Questo ha caratterizzato una svolta atlantista ed europeista, per lo meno relativamente a quello che è lo scenario del conflitto Russia-Ucraina; una svolta che non convince del tutto, perché in passato la stessa Meloni si è dichiarata estimatrice di Vladimir Putin, e poi perché la sua base elettorale non brilla per essere filo atlantica e se lo è, lo fa a corrente alternata. Anche perché ci sarebbe da chiedersi se l’atlantismo ostentato da Giorgia Meloni è quello di Donald Trump, che punta a ridimensionare se non addirittura a smantellare la NATO, o quello di Joe Biden più orientato a ciò che l’alleanza atlantica ha fatto dal 1949 a oggi.

Altro aspetto non irrilevante è che Meloni e i suoi, non sono mai saliti sui carrozzoni di unità nazionale di Monti e Draghi e hanno sempre detto no alle larghe intese, restando fuori dai governi Letta-Renzi-Gentiloni e soprattutto dal sopraccitato governo Draghi e i due governi Conte, nonostante nel primo fosse a un passo dall’ingresso, anche per la presenza dell’alleato leghista. Tuttavia, il tenere il piede in due scarpe, opposizione in parlamento e alleanza nei governi regionali e comunali ha fatto sì che l’opposizione di Fratelli d’Italia risultasse annacquata quando non inconsistente. Se infatti la gestione della pandemia da parte dei governi Conte e Draghi è stata più che discutibile, l’opposizione di fatto non c’è stata. Nessun partito (fatta eccezione per Italexit di Paragone e i fuoriusciti dai cinque stelle di cui ci occuperemo in altri approfondimenti) si è opposto con ferocia al lasciapassare verde e tantomeno si è messo alla testa dei movimenti di protesta più o meno spontanei. Giorgia Meloni si è pertanto opposta a Conte e Draghi. ma si è tenuta alla larga dai lavoratori discriminati, dai movimenti etichettati come no-vax e dal dibattito sull’efficacia dei sieri sperimentali, limitandosi, in campo economico a parlare di sostegni e riaperture in sicurezza.

Il fattore astensionismo poi, il vero protagonista delle ultime tornate elettorali, è il vero avversario di Giorgia Meloni e le sue ambizioni di leadership nazionale. Gli elettori di destra, anziché votare il meno peggio, non votano, mentre gli elettori di sinistra preferiscono schierarsi in massa, pur di non vedere un discendente del MSI  al potere. Più che intercettare i voti dei moderati, Meloni dovrà preoccuparsi di infondere fiducia a quei milioni di italiani che in questi ultimi due anni, non solo si sono allontanati dalla politica, ma si sono addirittura sentiti oltremodo traditi, da un sistema che anziché tutelarli li ha vessati oltre ogni misura.

scrivere-ecc80-un-lavoro-duro

Ti è piaciuto questo articolo?

Cara lettrice e caro lettore, questo contenuto è stato pubblicato su un altro blog al quale contribuisco come volontario. Volontariamente puoi scegliere se sostenere la mia attività con un’offerta libera. Grazie anche solo per aver letto!

1,00 €

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: