Questione di percezione (riflessione a margine della rassegna ad alta quota del 17 maggio 2020)

Mi fermo a riflettere su alcuni fattori che hanno scandito la mia vita di osservatore. Uno di questi è la percezione delle cose, degli eventi, del pericolo e, dulcis in fundo, della narrazione di tutto ciò che ho appena elencato. Il Covid-19 è stato narrato prima come un raffreddore più grosso degli altri, poi come l’apocalisse e ora viene dipinto come un qualcosa che c’è, con cui bisogna convivere, stare attenti, niente sarà più come prima eccetera. L’opinione pubblica si è divisa tra allarmisti, virologisti, aperturisti e quant’altro, fino ad arrivare all’oggi e cioè a una sorta di libertà vigilata, o libertà ansiogena, segno che nessuno ci ha ancora capito nulla, ma è necessario che si torni a vivere e lavorare. E avremo, ci potete scommettere, la paura a farci compagnia giorno dopo giorno, fino a che questo virus sarà percepito come il compendio delle forze del male.

E mi tornano in mente altri tipi di percezione che in passato venivano sottolineati ma anche bellamente sfottuti o ridicolizzati. Penso alla percezione del crimine derivante dai fenomeni migratori, confinato nella narrazione della destra razzista e, ovviamente, fascista; penso alla percezione del potere d’acquisto dopo l’avvento dell’Euro, anche questa confinata nel recinto degli euroscettici.

Sono tutte narrazioni che volente o nolente hanno diviso l’opinione pubblica e che in un modo o nell’altro hanno avuto un riscontro elettorale. Quello che non hanno avuto è stata una narrazione obiettiva, sensata e senza tifoseria. Il Coronavirus ha fatto la stessa fine, dal non c’è pericolo si è passati al moriremo tutti senza soluzione di continuità, con la differenza che, stavolta, una buona fetta di persone si è accorta che qualcosa nella narrazione dei fatti non ha funzionato. E vedrete che questo avrà strascichi lunghi e pesanti nei giorni a venire.

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