… e siamo sopravvissuti! E come ormai sono tornato a fare da qualche anno l’ho “festeggiato” andando a suonare con la banda del paese per le normali ricorrenze civili. Eppure c’è stato un periodo che per me, il 25 era natale o la Pasqua di risurrezione! Oggi mi suona blasfemo definirlo così, ma è successo. Chi mi ha seguito nei miei vari blog, sa che ho un sinistro passato da uomo di sinistra, quando ero un universitario e che quindi per me il 25 aprile valeva bene una messa. Così come da aspirante intellettuale, nelle varie scorribande artistiche a cui ho preso parte, è accaduto che il 25 aprile lo raccontassi o lo cantassi davanti ad un pubblico. Ma già sette anni fa, in quello che forse è stato il mio picco artistico di quando mi dedicavo al teatro narrante, mi rendevo conto che era difficile parlare della Resistenza senza scivolare nella retorica. In quell’ultima occasione che ebbi di farlo (e fu fatto anche alla festa nazionale dell’ANPI a Marzabotto) cercai, coi miei sodali di allora, di evitare come la peste argomenti retorici da antifascismo di maniera, partendo invece dall’ultimo passero di Fenoglio (il partigiano Johnny) e arrivando ai giorni nostri, cercando di capire quali potessero essere le nuove resistenze. Un brano a cui ero molto legato era il “Discorso ai capelli” di Pasolini, che andrebbe letto oggi a chi manifesta in malo modo per fare riflettere su quella che oggi è la dittatura del pensiero unico e del politicamente corretto. Non a caso, Pier Paolo Pasolini non viene mai citato dagli intellò di oggi, troppo impegnati a rincorrere Saviano e la Murgia. La mia intenzione dell’epoca era quella di voler uscire dal recinto della sinistra, cercando di dare un’impronta patriottica (si badi bene non nazionalista) anziché partigiana. Ma qualche mese dopo l’esperienza con quel gruppo finì (almeno da parte mia) e successivamente non ho avuto più modo di dedicarmi a questo genere di cose. Non lo rimpiango, se non in giornate come oggi, dove la polemica retorica domina lasciando poco spazio a commenti intelligenti.
In realtà pensare di festeggiare il 25 aprile senza retorica è di fatto impossibile. Lo è perché dopo che per anni è stato appannaggio della sola sinistra, è inutile cercare da parte della sinistra stessa, di cercare di trasformarlo in una festa condivisa. Soprattutto oggi con un antifascismo che è più strumentale a un opposizione senza se e senza ma a Salvini, rispetto alle rievocazioni che stanno solo nelle curve da stadio. D’altro canto a destra ricordano che il fascismo era di fatto caduto due ani prima, un altro 25 ma in luglio, ed era caduto per logoramento interno, addirittura famigliare, Ciano il genero, contro il suocero Benito. E poi il sussulto del Re, l’armistizio, la fuga, lo sbando e la seconda guerra civile (la prima fu quella al brigantaggio, ma non è questa la sede).
Personalmente a me ormai il 25 aprile ricorda più i nostalgici sudisti del generale Lee e il Ku Klux Klan, che non le eroiche gesta dei partigiani delle montagne. E so bene di cosa parlo perché vivo in una zona a ridosso di quella che fu la Linea Gotica, non lontano dai territori liberi che costituirono la Repubblica di Montefiorino. So anche, per i racconti di mio nonno (che fu deportato come prigioniero di guerra in Germania dal fronte greco e che ha sempre votato Pci), e di un mio vecchio professore che so non essere certo di destra, che però nel dopoguerra fu anche zona di briganti e che da queste parti le vendette ci sono state, anche per una questione privata, come direbbe Giovanni Lindo Ferretti.
Insomma il 25 aprile, come ogni anno, ci ricorda quanto è difficile essere italiani; aspettiamo la messa del I maggio, di modo che le feste comandate “civili” finiscano e con loro un altra colata di retorica gratuita. In attesa di una sospirata riconciliazione nazionale che, come la speranza di Tenco, è diventata un’abitudine.

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