Nel giro di un mese si sono tenute le finali di coppa Italia di due sport così detti minori nel panorama italiano: la Superlega di pallavolo e le final eight di LBA. E sebbene il movimento cestistico, pur con tutti i suoi limiti, stia cercando di recuperare terreno a livello di organizzazione di grandi eventi (l’evento di Rimini è stato spettacolare anche per le coreografie e l’averci inserito un mini all star game) il divario è impetuoso: in primis perché la final four di pallavolo ha visto partecipare ben tre squadre su quattro tra le pretendenti al titolo di campioni d’Italia (mancava Perugia clamorosamente eliminata da un’agguerrita Piacenza, outsider fino alla fine), in secondo luogo perché il volley, nonostante un’accenno di crisi a metà degli anni zero e il fatto che manca un oro al collo della nazionale da più di dieci anni (tralasciamo per comodità il settore femminile di entrambi), la crisi l’ha affrontata di petto ed infatti il movimento è arrivato alla creazione della Superlega e la nazionale è tornata a produrre risultati più che dignitosi. Il che vuol dire che, dopo l’apogeo e la conseguente parabola discendente, c’è stata una ripresa.
Il basket invece, nonostante sia di tradizione molto più radicata e meno provinciale, a livello di nazionale non ha mai fatto man bassa di trofei, vuoi perché ci sono state nazionali più forti (un occhiata al palmares non guasta), vuoi perché anche a livello di club, dove per quattro decenni bene o male ci si è fatti valere e alla grande, siamo entrati in una spirale negativa dalla quale si stenta a uscire.
In tutto questo Milano, l’Olimpia Milano, ne è la degna rappresentante. Alle final eight è entrata da papa rischiando seriamente di uscirne da cardinale, ha i mezzi di informazione che incensano la squadra oltre il lecito consentito e ha un budget “illegale” rispetto al resto del panorama italico (sebbene sia più basso della media degli anni ’90).
Ho una personale teoria sullo scudetto del 2014, vinto dalle scarpette rosse 4-3 sulla defunta Siena sponsorizzata dal Monte dei Paschi. Ho idea che quella vittoria doveva finire a Milano per il semplice fatto che dato che la dinastia senese, pur se gonfiata anche da illeciti sportivi, era giunta alla fine non di un ciclo ma di un’esistenza, e occorreva subito porre rimedio. E quale miglior rimedio, dopo la scomparsa dai radar di Treviso, la nebulizzazione delle bolognesi e l’impossibilità per Varese, Cantù e Roma di imporsi come contraltari, di focalizzare l’attenzione sulla solida Milano (soprattutto per via del patron Giorgio Armani)? Movimento dunque a trazione milanese, più che il campionato in sé, e non è un caso che Milano sia stata solo sfiorata dalla guerra Fiba-Eca nella versione tricolore col diktat Fip ai club della LBA che volevano partecipare all’Eurocup.
Risultato? Milano partecipa al campionato con un budget da Eurolega, tengono testa a fatica le squadre che disputano la Fiba Basketball Champions League (Venezia, Sassari e Avellino), capitolo a parte Reggio Emilia che ha un progetto pluriennale, agli altri le bricioline.
Sia chiaro, non sono un heater di Milano, né questo vuole essere un attacco gratuito da tifoso frustrato. Qui si vuole solo sottolineare come il basket tricolore abbia preso una piega un po’ troppo dinastica in casa, a fronte di risultati internazionali che lasciano decisamente l’amaro in bocca. Gli anni del dominio senese sono lì a dimostrarlo e la nuova trazione biancorossa rischia di essere una triste soluzione di continuità: la Mens Sana nel suo decennio dorato ha preso parte solo a due final four tra l’altro senza mai accedere alla finalissima; l’Olimpia, in Eurolega per meriti monetari e di pubblico più che per risultati sportivi, nelle ultime tre edizioni solo una volta ha avuto accesso ai playoff (2014 eliminata dal Maccabi poi campione) e addirittura nell’ultima edizione non è arrivata nemmeno alle Top 16. Nella nuova formula occupa stabilmente il fondo della classifica e mi auguro che il godere di una licenza decennale non comporti un andamento simile alle partecipanti al Pro12 di Rugby.
Sia chiaro che la vittoria di Milano contro Sassari domenica scorsa, è stata meritata, obiettivamente gli uomini di Repesa hanno giocato meglio, ma se avessero perso non si sarebbe detto che la Dinamo era più forte, semmai che Milano aveva sprecato.
E non si può non sottolineare come, già da agosto, si dava per scontato che ogni competizione interna sarebbe stata sotto l’egida dell’Olimpia con le altre non tanto a fare l’AntiMilano, ma la lotta per la migliore seconda. Un campionato passerella, roba che neanche in Nba dopo che Durant è andato ai Warriors (che sono favoriti sì, ma con Spurs e Cavaliers subito dietro).
Insomma, allo stato attuale il basket continua a non stare bene. Ci può stare che esista una squadra dominante (la stessa Olimpia negli anni ’80, la Virtus Bologna e Treviso negli anni ’90), non che la concorrenza sia azzerata e ci si affidi ad outsiders con un momento di forma fisica e mentale migliore com’è stata Sassari nel 2015. E’ ora di introdurre un tetto salariale per quel che concerne la serie A e di introdurre limiti temporali al mercato: non si possono avere tesseramenti per tutta la stagione regolare esclusi i playoff, ci si trova a che fare con squadre che all’inizio dell’anno hanno un roster e alla fine ne hanno uno stravolto.
Questi due accorgimenti, per cominciare, favorirebbero un maggiore equilibrio. Di salary cap se ne parlava già alla fine degli anni ’90 quando Virtus, Fortitudo e Treviso facevano piazza pulita dei pezzi grossi del mercato, tuttavia nelle retrovie anche Pesaro e Roma dicevano la loro, cominciava a muoversi Siena e Milano cambiava continuamente proprietà. Vero che giravano molti più soldi di ora, ma siamo passati dall’eccesso di allora, ai conti gonfiati di Siena, che a loro volta sono stati sostituiti dal conto corrente di Giorgio Armani.
Insomma, questo è lo stato delle cose: da un lato una final four con tre pretendenti allo scudetto e un’outsider di spessore, dall’altra una final eight che, se non è stata una passerella, è solo perché i contendenti hanno scelto di non giocare il ruolo di comparse. Questo aumenta sicuramente la qualità del prodotto, ma la dice lunga sulla rendita di posizione di chi sta al vertice. E questo non fa bene al basket.
Jack