#andiamoacomandare – Il nuovo arco costituzionale

Secondo indiscrezioni giunte ai nostri occhi e alle nostre orecchie, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella pare deciso a dar retta al Presidente del Consiglio dimissionario Matteo Renzi: il fronte del NO si assuma la responsabilità della maggioranza del governo.
Prendendo dunque in parola i vari “siamo pronti!” di Salvini, Meloni e Di Maio, ecco il nuovo esecutivo incaricato uscito dal Colle in questi ultimi minuti:

Presidente del Consiglio dei Ministri: Giggino Di Maio (Movimento 5Stelle) in quanto rappresentante del gruppo parlamentare più numeroso del fronte del NO. L’incarico, hanno detto, non è stato recapitato via email.
Sottosegretario alla presidenza del consiglio: Andrea Scanzi. Più che un sottosegretario un sottoscala.
Vicepresidente del Consiglio: Giorgina Meloni (Fratelli d’Italia) e Matteo Salvini (Lega Nord). A Salvini, data la sua passione per le ruspe, è stata data anche la delega alle infrastrutture.
Ministro per l’economia: Paolo Ferrero (Rifondazione Comunista). Di Maio e Salvini avevano detto di non volere un uomo di Bruxelles e sono stati accontentati. E’ di Pomaretto (Torino), ed è in linea con le politiche economiche dei cinque stelle e della Lega.
Ministro dell’Interno: Gianluca Iannone (Casa Pound). Per equilibrare Ferrero, Di Maio, concorde con la Meloni ha fatto una scelta decisa sui toni del nero.
Ministro degli affari esteri: Eva Klotz (indipendentista alto atesina)  hanno ritenuto che fosse la più adatta a parlare con Angela Merkel.
Ministro della difesa: Alessandro Di Battista (M5S) che ha promesso la smilitarizzazione della Renania il ritiro delle truppe dalla Siria.
Ministro della giustizia: Marco Travaglio 😥
Ministro dello Sviluppo Economico: Roberto Fico (M5S) il quale ha pronunciato forte il suo cognome quando ha saputo della nomina a ministro
Ministro dell’istruzione: Giuseppe Civati (Possibile) il quale ha detto che un’altra istruzione è possibile. Anche se nessuno ha capito il suo programma.
Ministro della Salute: Eleonora Brigliadori (indipendente in quota M5S). Di Maio l’ha trovata la più adatta contro i gombloddi dell’industria farmaceutica.
Ministro dei beni culturali: Sabrina Ferilli (quota D’Alema).
Ministro del lavoro e politiche sociali: Maurizio Landini (Fiom), non avendo mai fatto niente in vita sua, è il più adatto a smantellare il job act.
Ministro dell’agricolura: Renzo Bossi (Lega Nord). Direi che ci siamo.
Ministro dell’ambiente:  Antonio Razzi (Forza Italia) Berlusconi ha rivendicato un posto per i suoi.

Il governo è stato definito da Mattarella come il nuovo arco costituzionale. Matteo Renzi, leader del PD ha detto che il suo partito si asterrà dal votare la fiducia. Il primo provvedimento del nuovo governo sarà sostituire l’inno nazionale “Fratelli d’Italia” di Mameli con “Andiamo a comandare” di Rovazzi.
Benvenuti nell’antifascismo 2.0 e ricordate: la situazione è grave ma non seria.

Jack Tempesta

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La costituzionalizzazione di brutte consuetudini istituzionali

PREAMBOLO – SIAMO TUTTI COSTITUZIONALISTI

Nel marasma approssimativo che sta caratterizzando l’estenuante campagna per il referendum costituzionale del 4 dicembre, ho deciso di dire la mia. D’altronde credo di avere sia le competenze (una laurea in giurisprudenza), sia le conoscenze (mi tengo aggiornato anche se faccio altro) per potermi esprimere in merito. Sarò borioso, ma in una fase in cui tutti si stanno improvvisando costituzionalisti con un fare saccente da incitare all’uso delle mazze da baseball rieducative in pieno stile Ramones; sono anche certo di quello che scrivo. So che mi perdonerete anzi, mi perdono da solo.

CAPITOLO I – LA RIFORMA E’ UN POCCIO?

Perdonate anche il gergo dialettale, ma questo è il mio blog, non una testata giornalistica e se imparate un po’ di termini di casa mia son contento. Poccio sintetizza pasticcio, una cosa mal fatta, o sbrigata alla meno peggio. Ecco, la riforma Boschi è un poccio a tutti gli effetti, un po’ perché tratta troppi argomenti tutti insieme, un po’ perché è scritta male, ma questa è una tendenza in voga da anni. Ricordo un mio professore all’università che, parlando della riforma del diritto societario (datata 2003), disse che il modo di scrivere le leggi era diventato abominevole. Ed eccoci alla prima costituzionalizzazione di brutte consuetudini istituzionali.
Il testo riforma ben 47 articoli, in moltissimi casi cambia una sola parola dell’articolo. Il poccio nasce dal fatto che alcune cose potevano essere tolte con semplice legge costituzionale (tipo il Cnel e le provincie) e nessuno avrebbe avuto da dire in caso di mancato referendum. Mettere dentro anche la riforma del bicameralismo e la modifica al titolo quinto complica un po’ le cose, specie nella comprensione di chi deve andare a votare. Ho amici parenti e conoscenti che mi chiedono delucidazioni in merito e già si fatica a far capire il normale andazzo con la costituzione vigente, figurarsi a spiegare una riforma di queste proporzioni.
Lo “spacchettamento”, cioè il far votare la riforma un pezzo alla volta, sarebbe stato un discorso ragionevole ma occorre anche dire che questo è il secondo referendum del 2016 (l’altro era quello delle trivelle ricordate?), in più si è svolta anche una tornata di amministrative. Dicano pure che in Italia si va verso un regime ma non ne ho mai visto uno dove si vota tre volte l’anno. Poi se per spacchettamento intendevano di darci più schede in mano nello stesso giorno…

CAPITOLO II – LE CATTIVE ABITUDINI  (NON SARO’ BREVE MA CI PROVO)

Partiamo da un paio di coming out: io sono per il SI. La riforma non mi soddisfa a pieno ma, a conti fatti non mi piace il fatto che l’attuale Costituzione sia troppo suscettibile di interpretazioni che la rendono più drammaticamente flessibile di quello che non sembra.
Il secondo coming out è che sono stato a un solo incontro sul referendum, dove relatori erano due miei ex stimati professori e che era organizzato da un comitato per il NO collegato all’ANPI. E messo giù come l’ho visto e sentito io, il NO ha buone ragioni di esistere e di dire la sua. Sulle cose occorre ragionarci e tutti, da almeno venticinque anni dicono che la Costituzione s’ha da cambiare. Poi però non va mai bene. O per lo meno non va bene a tutti, ma va detto, neanche i costituenti di quella del 1948 erano tutti d’accordo e i risultati si vedono ancora oggi.

1) Un ordinamento talmente rigido da essere flessibile

La costituzione del ’48 istituiva il bicameralismo perfetto che, dal ’96 (bicamerale presieduta da D’Alema) a oggi, stanno maldestramente cercando di archiviare. La scelta dava continuità al parlamento previsto già dallo Statuto Albertino (Camera dei deputati elettiva e Senato di nomina regia che avevano più o meno le stesse funzioni) e incentrava la funzione legislativa sulle due camere con i provvedimenti che, a oggi, vanno approvati in doppia lettura. La scelta andò nella direzione di mettere al centro la collegialità dell’istituzione parlamentare dopo vent’anni di dittatura fascista la quale però, se uno fa un’analisi storica un po’ più approfondita (si legga il libro “Il Fascismo” di Ignazio Silone) è avvenuta nel pieno della legalità statutaria, in quanto il re aveva il potere di nomina e revoca del primo ministro (che doveva avere la fiducia della sola Camera dei Deputati). Inoltre i governi precedenti a quelli di Mussolini, si sono tutti bene o male distinti per autoritarismo col benestare del parlamento. Non a caso il vero dittatore d’Italia non fu Mussolini ma il generale (nonché senatore) Luigi Cadorna, capo di stato maggiore durante la Grande Guerra. Non era presidente del consiglio ma tenne per le palle un intero paese dal maggio del 1915 fino a Caporetto. Se non ci credete leggetevi “Italiani brava gente?” di Angelo Del Boca. Questo per dire da dove nasceva l’esigenza del bicameralismo perfetto. Il problema però sta da un’altra parte, per l’esattezza i regolamenti parlamentari e le commissioni che la riforma non tocca, anche perché sono argomenti disciplinati da legge ordinaria (se volete verificare guardate qui dagli articoli 70 al 72).
Il centro del potere effettivo, nel nostro sistema parlamentare, risiede nelle commissioni parlamentari, ovvero dei mini-parlamenti che disciplinano per specifiche materie (giustizia, bilancio, difesa, esteri ecc.) e che difficilmente superano i 30 componenti. Sia la Camera dei Deputati che il Senato le hanno. La Costituzione vigente disciplina per grandi linee il procedimento di formazione delle leggi, rimandando però ai regolamenti delle camere le specificità. Ora capirete che, riforma o non riforma, molte cose in questo paese vengono decise da qualche decina di persone o poco più, col voto finale dell’Aula che spesso diventa una formalità (la sto semplificando se no finite di leggere a Pasqua). Per provare l’ebbrezza del potere più che essere ministro, in questo paese, occorre essere presidente di una commissione parlamentare.
Il Governo in tutto questo, a parte presentare in via ordinaria i suoi disegni di legge, può poco o nulla se non adottando tre strategie che poi sono le brutte abitudini istituzionali: la questione di fiducia, la decretazione di urgenza e la delega legislativa (articoli 76 che non cambia e 77) procedure abusate dal ’94 a oggi senza che nessuno ne tirasse in ballo la legittimità costituzionale.
La questione di fiducia è regolamentata, come si vede dal link, dai regolamenti parlamentari di cui abbiamo scritto poco fa e poco ha a che fare con la fiducia prevista dalla Costituzione, nel senso che la carta non la prevede. Non prevede che si possa legare il destino di un’azione di governo (e quindi a tutti gli effetti dell’esecutivo) a una legge ordinaria. Però non essendo previsto non è nemmeno vietato.
La delega legislativa (noto anche come decreto legislativo che ripeto, non cambia con la riforma) prevederebbe che il parlamento, mediante legge delega, attribuisca al governo la facoltà di legiferare, stabilendo materia, tempi e modi. In quinta ragioneria in classe ci spiegarono che la realtà dei fatti è la seguente: non è il parlamento che delega ma il governo che dice “parlamento delegami”.
Il decreto legge infine è un provvedimento di urgenza che adotta il governo e che entro sessanta giorni deve essere convertito dal parlamento in legge. Una pessima tendenza è quella di riproporli cambiati di due virgole alla scadenza. Oltre il fatto che il concetto di urgenza è diventato più che vago.
Una delle obiezioni che si fanno alla riforma costituzionale è la possibilità che il Governo avrebbe di imporre la corsia preferenziale di determinati disegni di legge. In pratica dettare l’agenda alla Camera dei Deputati. Ora, non è chiaro se la Camera può rifiutare (è fissato un termine di cinque giorni dalla richiesta nel nuovo articolo 72), tuttavia va detto, è una possibilità, non un’imposizione di volontà politica, anche se ci sono ampi margini perché lo possa diventare. Ma la centralità del parlamento resta e questo è un dato (e Roberto D’Alimonte ve lo spiega meglio di me). Anche perché, e lo vediamo al telegiornale, l’agenda parlamentare è soggetta a continui cambiamenti già con la Costituzione vigente, specie se cambia il governo. Inoltre, le brutte abitudini istituzionali descritte sopra, non sono anch’esse imposizione di volontà politica al limite della legittimità? Quante volte, negli ultimi anni abbiamo sentito parlare di delegittimazione del Parlamento? Mi spiegate allora qual’è il male di rendere più chiaro, pardon, più dettagliato l’iter di formazione delle leggi? Tra l’altro la riforma introduce restrizioni all’uso dei decreti legge. Non mi pare una svolta autoritaria.

2) Quer pasticciaccio brutto delle maggioranze parlamentari

Non nascondo che se anziché perdersi nell’Italicum, il sistema elettorale fosse stato inserito in Costituzione, probabilmente se ne avrebbe uno non suscettibile di modifica a ogni legislatura. Anche perché normalmente questi cambiamenti vengono fatti a colpi di maggioranza e sono gli unici che, a tutt’oggi, sconvolgono l’agenda parlamentare senza che nessuno si tracci le vesti. Come se fosse l’unica urgenza del paese. Cos’è che dicevamo poco fa?
Il problema delle maggioranze, o meglio, della loro solidità, è in sostanza il fulcro su cui si regge ogni riforma costituzionale che è stata tentata dal ’96 a oggi. Questo perché è nelle maggioranze che risiede la volontà politica del Parlamento, ma dal ’94 a questa parte le maggioranze sono spesso state “asimmetriche” nel senso che, o in una o nell’altra camera, non c’era la maggioranza per il governo. Chiedere a Prodi per conferma o guardare anche lo “spettacolo” uscito dalla tornata elettorale 2013.
I governi, sia con la Costituzione vigente, sia con quella eventualmente riformata, dovranno avere la fiducia delle Camere oggi, della sola Camera dei Deputati domani. E la fiducia oggi come domani dovrà essere rilasciata da una maggioranza.
In una repubblica parlamentare come la nostra, è abbastanza normale che le maggioranze siano composte da coalizioni di partiti e che vengano assemblate dopo le elezioni, in quanto l’esito delle urne difficilmente da una maggioranza assoluta a un singolo partito (il massimo è stata la DC col 48% alle elezioni del 1948). E’ accaduto dal ’48 al ’92 e si è tornati a farlo nel 2013. Tra il ’94 e il 2008 invece, in virtù delle modifiche alla legge elettorale (Mattarellum prima, Porcellum dopo) è accaduto invece che le coalizioni di maggioranza venissero espresse al momento della tornata elettorale poiché la legge lo consentiva. Questo però ha comportato due importanti fraintendimenti, che rientrano nelle brutte abitudini.
La Costituzione vigente infatti (e tantomeno l’eventuale prossima) dice che il governo deve avere la fiducia delle Camere. Non parla di maggioranze elette o formate in aula. Ragion per cui, quando sentite dire che gli ultimi tre governi non sono stati eletti è vero, perché il governo è un organo nominale (viene nominato, e lo resterà in caso di vittoria del SI, dal Presidente della Repubblica), ma non è vero che non sono legittimi perché non sostenuti da maggioranze venute fuori dalle urne. Idem per quello che fu il governo Dini (meglio noto come governo del “ribaltone”, ma non chiedete a Berlusconi, vi risponderà che è stato un golpe).
Il rapporto governo-maggioranza è quello che caratterizza la governabilità e la Costituzione si limita a certificare questo, dopodiché si passa alle consuetudini istituzionali. E fino al 1992 la consuetudine era quella che i governi non erano centrali nella vita del paese ma lo erano i partiti e, di conseguenza, il Parlamento. Poi con la crisi della Prima Repubblica è arrivata l’esigenza dell’uomo forte, del “governo che decide” o del “governo che governa”. L’esigenza del decisionismo insomma.
E di fatto, la situazione che si è venuta a creare è questa: nonostante una Costituzione che mette al centro il Parlamento, nei fatti vengono nominati Presidenti del Consiglio elementi che vogliono (o devono) imporre una volontà politica. Un rapporto di fiducia ribaltato, non più il Governo che deve avere la fiducia del Parlamento ma il contrario (vedi alla voce Governo Monti). In un epoca di scarsa credibilità del sistema politico, a mio modesto parere avere una Carta Costituzionale che permette simili consuetudini è molto poco rassicurante.

CAPITOLO III – INTERPRETAZIONI BORDERLINE E PARANOIE DA SVOLTA AUTORITARIA

Tra il 2011 e il 2014 le funzioni di indirizzo politico le ha svolte il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (per gli amici Re Giorgio) con decisioni molto ai limiti della legittimità costituzionale. La nomina di Monti a Senatore a vita per dargli una legittimità parlamentare e, di fatto, la destituzione di Berlusconi (anche se aveva perso la maggioranza alla Camera dei deputati) è stata una giravolta notevole che ha fatto sembrare Scalfaro un dilettante. Sia chiaro, la Costituzione non vieta (e continuerà a non vietare) niente di tutto ciò. Però neanche è scritto che si possa fare, ma siamo nel marasma interpretativo. E che dire del Governo Letta col programma scritto proprio da Re Giorgio? Capirete però, che l’affermarsi di determinate consuetudini facilita il malinteso. Detto di Napolitano, nel ’94 Scalfaro nominò il governo tecnico di Lamberto Dini, che fu sostenuto da una maggioranza totalmente diversa da quella uscita dalle urne solo sette mesi prima. La legge elettorale consentiva a delle coalizioni di presentarsi alle elezioni (e ciò diventerà una consuetudine) ma la Costituzione parla di fiducia al Governo e non di maggioranza. E poi come già detto, il Governo viene nominato e non eletto e, ultimo ma non ultimo, può essere guidato da un non parlamentare in quanto gli articoli che riguardano il Governo non lo prevedono (e non sono stati toccati) ed è specificato all’articolo 64 che i membri del Governo possono partecipare ai lavori delle commissioni parlamentari anche se non parlamentari. Per la verità il 64 riformato parla solo di membri del governo, mentre hanno tolto la dicitura “anche se non fanno parte delle camere”.
La riforma Boschi, pur timidamente, va in direzione di evitare questi malintesi, intanto perché la fiducia sarà pratica della sola Camera dei Deputati (e Italicum o no, i ribaltoni potranno sempre succedere), e poi perché viene rinforzato il meccanismo delle garanzie, ad esempio col Presidente della Repubblica che non potrà più essere eletto a maggioranza assoluta (come avvenne per Napolitano).
E’ pur vero che, per come è scritta, lascia molto spazio anche il nuovo testo a interpretazioni borderline. All’incontro a cui ho partecipato ad esempio sollevavano l’obiezione che se nel nuovo Senato uno volesse fare ostruzionismo, tra possibilità di richiesta di esaminare i disegni di legge e proporre modifiche e doppio incarico consigliere regionale/senatore con la volontà del singolo di voler partecipare ad entrambe le assemblee, i tempi più che ridursi si dilaterebbero.
Un’altra obiezione sarebbe quella secondo cui, non è necessario avere un sistema che permetta una processo legislativo più veloce, perché l’Italia ha un’enorme produzione legislativa ma le fa male; e quindi manca “solo” una volontà politica sui provvedimenti più importanti. Anche perché, dicevano sempre all’incontro, la legge Fornero fu approvata solo in dodici giorni o in venti come ha detto Salvini da Fazio, però quella fu solo la conversione di un decreto legge. Cos’è che abbiamo scritto qualche riga più su?
La “corsia preferenziale” per le proposte governative non è una svolta autoritaria (anche perché alla fine sarà sempre il Parlamento ad avere l’ultima parola) ma solo la costituzionalizzazione della brutta abitudine di legiferare grazie ad interpretazioni un po’ troppo disinvolte dell’attuale Costituzione. E credetemi, nessuno avrà la volontà politica per restringere queste consuetudini, quindi tanto vale procedere in altre direzioni che, per inciso, saranno sempre correggibili.

CAPITOLO IV – SI POTEVA FARE MEGLIO? SI’ CON MOLTA MENO FATICA E MENO ARTICOLI

Le consuetudini sono una fonte del diritto, lo dice l’articolo 1 delle “Disposizioni sulla legge in generale” del Codice Civile. Viene usata la parola “usi”, ma è lo stesso. Per fare un esempio di consuetudine prendiamo le consultazioni dal Presidente della Repubblica quando c’è da nominare il governo: è una procedura che non è prevista dalla Carta, e nemmeno dai regolamenti parlamentari, tuttavia non c’è governo che non passi per questa prassi. Se fosse stata istituzionalizzata credo che nessuno avrebbe avuto niente da dire. Ma contando l’ignoranza media, anche di chi siede in parlamento, probabilmente pensano che la procedura sia prevista dalla legge.
Costituzionalizzare le brutte abitudini non è proprio il massimo della vita, tuttavia è questo quello che  avverrà se vincerà il SI. Ma cosa si sarebbe potuto fare in alternativa?
Beh, intanto sarebbe stato utile fare una legge sui partiti: l’articolo 49 determina il principio di libera associazione politica ma poi non è mai esistita una legge ordinaria che abbia stabilito che devono essere associazioni riconosciute (cioè fatte davanti a un notaio ciò favorirebbe uno statuto rigido non come quello del Partito Democratico) né che debbano avere obbligatoriamente requisiti di democraticità (con Forza Italia spariamo sulla croce rossa, che ne dite del Movimento Cinque Stelle?). Una legge sui partiti renderebbe superflua l’idea di eliminare il divieto di mandato imperativo (quello secondo cui un parlamentare rappresenta la nazione e non un partito e quindi rende lecito il trasformismo o l’inciucio) in quanto rendendo più complessa la loro formazione si complicherebbe la frammentazione. Per esempio se due persone che si leggono questo sproloquio volessero fondare con me il PCI (Partito Costituzionalisti Improvvisati, che avete capito?), potremmo farlo senza troppi problemi. Ma la parcella di un notaio ci creerebbe  senza dubbio qualche scrupolo in più. Superfluo di conseguenza sarebbe cercare di blindare le leggi elettorali con sbarramenti o premi di maggioranza, perché i partiti sarebbero rigidi e non flessibili. Potrebbero sempre essere federazioni di più movimenti o coalizioni ma ripeto, non sarebbe così facile.
Perché non l’hanno mai fatto? Perché durante la prima Repubblica si pensava che una legge di tal fatta imponesse un controllo sulla libertà di associazione politica (s’era da poco usciti dal ventennio…), e poi perché si pensava che non fosse lecito che il partito di maggioranza potesse disciplinare come si dovevano presentare le opposizioni. Che poi è la stessa logica per cui non è mai stato disciplinato il conflitto di interessi. Infatti siamo ancora qui che ne parliamo.
Tra il 1989 e il 1994 si è assistito alla fine della così detta prima Repubblica, quella partitocratica, quella delle preferenze, quella consociativa. Il suo posto è stato preso dalla politica “personalizzata” e i primissimi effetti si sono visti con l’elezione diretta del sindaco introdotta nel 1993 e poi seguita dall’elezione diretta dei presidenti di provincia e regione. Non sarebbe stato del tutto stupido introdurla anche nel sistema nazionale, magari con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e un sistema elettorale sulla falsariga di quello delle regioni in particolare della Toscana che è quello che da più garanzie per le minoranze. Come contraltare si poteva mettere una bella elezione diretta del Presidente della Repubblica con tanto di aumento di poteri (dato che quello di nomina del presidente del Consiglio sarebbe diventato superfulo), attribuendogli ad esempio le nomine dei vertici delle aziende di stato (Rai in testa) e degli organi di garanzia (Antitrust); e diminuendo i giudici della Corte Costituzionale a nomina politica. Fatti due conti, fino ad ora saremmo all’attuazione effettiva di un articolo (il 49) e alla modifica degli articoli 83 e 87 (elezione e poteri del Presidente della Repubblica) e 92 (nomina del Governo). Quindi tre articoli modificati.
Per quello che riguarda il bicameralismo perfetto e il rapporto stato-regioni fin dal 1948 c’erano prospettive offerte su un piatto non d’argento ma di platino: l’articolo 57 stabiliva l’elezione del Senato su base regionale e il vecchio 117 stabiliva le competenze delle regioni. A mio modesto parere sarebbe stato sufficiente stabilire, con l’istituzione delle regioni (datata 1970) la composizione mista del Senato con i 2/3 eletti direttamente dai cittadini e 1/3 dai consigli regionali in base alle rispettive maggioranze assembleari, con i presidenti di regione senatori di diritto. Fiducia solo alla Camera dei Deputati e solo il Senato competente per i conflitti eventuali dell’articolo 117 vecchio testo. Perché diciamolo, anche la riforma del 2001 non fu un granché e le intenzioni della riforma Boschi sarebbero quelle di porre rimedio a una serie di danni. Qui quanti articoli avremmo toccato? Il 57 (elezione del Senato), il 70 (formazioni delle leggi per differenziare il Senato in termini di autonomie locali) 94 (fiducia al Governo) e 121 (organi della Regione al fine di decretare la nomina di diritto a senatore per i presidenti). Quindi altri quattro articoli per un totale di sette.
Infine il titolo quinto, le autonomie locali. La riforma del 2001 ha prodotto risultati ai quali, come detto, la riforma Boschi prova a porre rimedio. Tutto era nato dalle spinte federaliste della Lega Nord negli anni novanta, la millantata secessione della Padania l’attentato della serenissima eccetera. Fallita la bicamerale guidata da quel D’Alema che, al tempo provava gli inciuci con Berlusconi e oggi rema contro Renzi, la maggioranza che guidava la XIII legislatura provò a salvare il salvabile in piena crisi di consensi e fece il pasticcio della riforma del “federalismo” da cui poi la Lega prese le mosse per promuovere la “devolution” che poi affosserà nel referendum del 2006. Sarebbe bastato, oltre a quello elencato sopra, togliere il terreno da sotto il culo ai leghisti, concedendo due statuti speciali, a Veneto e Lombardia (poi magari continuare con l’Emilia Romagna e via andare…) di modo da togliere gli argomenti e farlo in maniera seria, introducendo anche un requisito di merito per i trasferimenti da stato a regione. Articoli modicficati? Il 116 (elenco regioni a statuto speciale) e 119 (autonomia finanziaria delle regioni). Totale nove articoli.

TRISTE SOLITARIO Y FINAL

Certo col senno di poi son buoni tutti. Chiaro che nessuno ha la bacchetta magica, e può fare specie che le ultime riforme costituzionali siano state promosse solo da una parte politica e non da una condivisione come ai tempi della Costituzione. Tuttavia un’altra consuetudine tremenda è quella del fare a gara a chi da più addosso all’altro. Se una parte fa le riforme l’altra non ne vuole sapere e rema contro per principio. Perché tutti vogliono riformare ma c’è sempre chi riforma più degli altri. E poi è sempre colpa dei governi precedenti e via dicendo.
Tuttavia siamo al 4 dicembre e non si scappa. Comunque vada ci sarà il 5 e noi gente comune ci si troverà comunque a cercare di risolvere le nostre giornate.
Se siete arrivati fin qui, vuol dire che avete finito e che, nonostante ci abbiano scartavetrato le palle con questo referendum, avete avuto voglia di sapere un’ulteriore opinione in merito. Io l’ho voluta dire perché per una volta, sapevo di cosa volevo e potevo parlare. E soprattutto senza limiti di battute. Mica come quando scrivevo di basket.
Votate responsabilmente, come quando dovete guidare e vi offrono da bere.

Jack

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