Settanta

Settanta è una farfalla
un tatuaggio sulla spalla
su ali a triangolo
di diversi colori,
su un filo spinato
un pensiero angosciato
il freddo gelido
che è stato lasciato.

Settanta è una storia
un esercizio a memoria
una nuova contesa
del ricordo la resa,
a nulla è servito
e non è bastato
se ogni anno ricordano
che questo è stato.

Settanta era ieri
e sarà già domani,
è l’età di un padre
l’affanno di madri
è il rimpallo di idee
di tesi e complotti,
è distinguere il sangue
le morti e le notti
dell’umanità che si scordò Dio
giocando a dire
il boia son io.

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La sinistra e quella malattia chiamata antagonismo

Mi viene da sorridere a leggere della vittoria di Syriza in Grecia. Non perché tifassi per Tsipras e i suoi, ma per tutto quello che ne è conseguito. Se suona grottesco il festeggiamento da parte delle destre anti europee, suona invece come patetica l’acclamazione di Tsipras salvatore del popolo da parte della sinistra italiana. Da Civati a Vendola, passando per Cuperlo, tutti a fare festa. Per cosa, ancora non si sa. Da che ne ho memoria, e si parla dai tempi del “correntone” degli allora Democratici di Sinistra, in questo paese s’è coltivato il sogno di una sinistra unita, riemerso ieri per l’ennesima volta, segno che la disfatta della Sinistra Arcobaleno del 2008 non è bastata ancora a far capire come vanno le cose a sinistra in Italia. Tolto il discorso anti troica che interessa più a Salvini che non a Civati & Co, il discorso è squisitamente  politico, e siccome sono stato anch’io un militante di sinistra radicale ai tempi, conosco fin troppo bene i miei polli.
Per cui no, non illudetevi, non ci sarà una sinistra “a la Tsipras” in Italia. Non è possibile per almeno 3 motivi:

#1 l’Italia più che a Bruxelles è legata a Washington. Da quelle parti una forza progressista non è ben vista, diversamente le elezioni in Italia le avrebbe potute vincere il Pci di Berlinguer. Non è stato possibile per gli equilibri della guerra fredda, e oggi non è possibile per gli interessi americani sul mediterraneo, di cui l’Italia è portavoce a doppio gioco. Per approfondire, occorre scorrere l’archivio di “Blu notte” c’è una puntata che, partendo dal caso Abu Omar, analizza l’operato dei servizi segreti italiani.

#2 Tsipras è un leader terzomondista. Come lo fu Zapatero, come lo fu Marcos e come lo fu Che Guevara e via dicendo. Non lo dico per snobismo o per presunta superiorità dell’Italia sul resto del Mediterraneo. Lo dico perché i modelli presi dalla sinistra radical-chic di casa nostra sono modelli di tipo mitologico/salottiero, catturati in paesi più scalcagnati del nostro. Zapatero ha vissuto l’onda lunga dei successi economici di Aznar ma non ha saputo fronteggiare la crisi e, salvo alcune battagli di (presunto) progresso non ha combinato granché. La Grecia oggi è un avamposto di terzo mondo (nel senso latinoamericano del termine), l’Italia nonostante tutto no. Piaccia o meno, Renzi ha scelto Blair come riferimento, che avrà pure dato continuità alle politiche della Thatcher, ma ricordiamo che siamo in democrazia e, alle elezioni o si vince o si perde. Per quanto la sinistra non lo accetti, la Thatcher ha vinto.

#3 La sinistra nostrana è malata di antagonismo. E’ rimasta di lotta contro cosa non si sa, ma dopo Berlinguer, a dispetto del dirsi progressista, non è affatto progredita, anzi. Ha inglobato dentro se la cricca extraparlamentare che tanto extra a conti fatti non ha voluto essere ha perennemente bisogno di nemici (Berlusconi in testa) che poi si trasformano in alibi, non sa assumere responsabilità di governo, ed esige una purezza del proprio elettorato. Prova ne sia che, vinte le europee col 41% dei consensi, molti della sinistra Pd hanno iniziato a sentire strani pruriti: la classica allergia al centro e al prendere voti dall’elettorato tradizionalmente opposto. Come se Tsipras in Grecia avesse vinto col solo elettorato di sinistra. Ve lo dico in lingua madre: par piaser!

Questi sono i fatti. I giornali progressisti soffieranno sul fuoco di Civati che punta alla scissione solo perché, da fondatore della prima Leopolda, è stato surclassato da Renzi. Cuperlo dal canto suo non ci sta, dopo una vita a scrivere i discorsi a D’Alema, a non avere il suo “meritato” posto da leader. Vendola… dopo aver cavalcato le due repubbliche, prova a ricostruire il suo ennesimo movimento (si badi bene dal dire che è un movimento ad personam per non finire al rogo) per entrare nella terza. Fassina… chi?
Inutile dire che è tutta cronaca e niente arrosto. Probabilmente, eletto il Presidente della Repubblica, il secondo atto del capo dello stato sarà di nominare un Renzi bis, sostenuto da Pd e Fi al netto dei dissidenti. Conoscendo quelli di sinistra (essendo gli anti nazareno una combriccola ulteriormente frammentata) faranno un po’ di dentro-fuori, al pari dei seguaci di Fitto (vedi l’esempio di Alfano). Da giovedì sapremo. Intanto però chi di dovere si metta l’anima in pace e se ne faccia una ragione: in Italia, un’altra sinistra non è possibile.

#marcellolippialquirinale

Io me lo ricordo, un post partita di una delle ultime gare di qualificazione al nefasto mondiale del 2010. Incazzato come una belva, contestato dai tifosi, punzecchiato dai giornalisti. E lui li manda tutti a quel paese. Poi consegna all’Italia il suo peggior mondiale della storia, quattro anni dopo averne vinto uno, si assume tutte le responsabilità e se ne va. Non erano le dimissioni pietose di Prandelli, il siluramento senza troppi complimenti di Donadoni, o il passo d’addio di un Trapattoni che in nazionale è stato al di sotto di ogni possibile aspettativa. Quelle furono le dimissioni di un uomo chiamato ad anticipare un disastro, a rimediare a un dissesto, a mettere una pezza laddove non c’era nemmeno il filo per cucire. Lippi fece giocare al meglio una nazionale che peggio non poteva essere, privilegiando il gruppo e lasciando a terra primedonne che quattro anni dopo sarebbero state messe sul banco dei capri espiatori, segno che, forse tanto torto non ce l’aveva. Aveva saputo leggere, esattamente come quattro anni prima, che quello era il miglior calcio che l’Italia potesse esprimere, ci fosse stato un’altro scandalo pre mondiale, forse avrebbe tirato fuori quella punta di orgoglio in più che serviva. Ma tant’è, la colpa non era sua, ma di Giancarlo Abete, rappresentate di un sistema che non stava (e fatica tuttora a starci) in piedi e che solo quattro anni più tardi capì che era il caso di levarsi di torno.
Ecco, se c’è un uomo che vorrei vedere sullo scranno del Quirinale, è Marcello Lippi. Sarà per i miei trascorsi juventini, sarà per quella sua aria da incredibile stronzo, sarà che calciatori, giornalisti, presidenti per lui pari sono; sarà perché probabilmente non ne sa mezza di politica ed economia e allora proprio per questo ce lo vorrei; sarà perché è l’unico italiano ad aver fatto qualcosa di prestigioso agli occhi di tutti (mi perdonino scienziati e uomini di cultura ma la massa vince) a livello internazionale per l’Italia, sarà perché le consultazioni dirette da lui sarebbero un vero spasso…. io candido #marcellolippialquirinale. Un italiano che ha avuto il coraggio d’essere stronzo. E che da tale, pur se da commissario tecnico, ne ha messi in riga sessanta milioni. Tra scherzo e realtà, uno con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, quel modo di fare un po’ così, a fare il presidente ce lo vedrei bene. #marcellolippialquirinale

Quel che non si vuole capire (o approfondire)

Circola su Facebook e su tutti i social di questo angolo di mondo chiamato Italia, l’intervista che “La Zanzara” di Radio 24 ha fatto a Mario Adinolfi, direttore del quotidiano fresco di stampa “La Croce“. Ora, tralasciando i commenti che si sono susseguiti in ambito “progressista”, occorre dire che è proprio vero che i titolisti dei giornali, siano questi via web o cartacei, spesso peccano di sensazionalismo. Agli occhi di tutti, Adinolfi ha detto che “la moglie deve essere sottomessa”, passando di fatto per un fondamentalista col crocefisso al collo anziché la bandiera dell’Is.
Ora, a pensar male si fa peccato, Adinolfi conosce benissimo quelli de “La Zanzara”, ragion per cui, è consapevole della risonanza mediatica che può ottenere una simile intervista, dato che passa per essere il portavoce delle “Sentinelle in piedi”.
Però, benedetti figlioli, voi che leggete più e meglio delle suddette sentinelle, voi che siete progressisti, voi che confondete l’odore di incenso con quello di zolfo (a tanto s’è arrivati) dico io: ma una letturina alla Bibbia mai? Vi do una mano io mettendovi di fronte anche a diverse versioni per provare a farvi capire cosa intende Adinolfi. Se farete lo sforzo di leggereciò che è scritto, capirete che il cristianesimo con l’Is c’entra come i cavoli a merenda; però lo so, anche io quando ero agnostico, facevo di tutti i monoteismi un fascio.
Quanto alla prevenzione in materia di sesso e preservativi, senza scomodare i testi sacri copio incollo due estratti di Pier Paolo Pasolini, intellettuale omosessuale dimenticato dalla sinistra progressista e dai movimenti GLBT, del resto quando si ha Luxuria, perché scomodare Pasolini?
Il primo estratto proviene dal Corriere della Sera del 19 gennaio 1975 e pubblicato in Scritti Corsari (Garzanti) ed è intitolato “Sono contro l’aborto”:

“La libertà sessuale della maggioranza è una convenzione un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore […] una maggiornaza totalmente passiva e nel tempo stesso violenta, che considera intoccabili le sue istituzioni, scritte e non scritte. […] Tutto vi è precostituito e conformistico, e si configura come un diritto (compresa la tragicità e il mistero impliciti nell’atto sessuale) viene vissuto conformisticamente. […] C’è da lottare, prima di tutto contro la falsa tolleranza del nuovo potere totalitario dei consumi, distinguendosene con tutta l’indignazione del caso; e poi c’è da imporre alla retroguardia, ancora clerico- fascista, di tale potere, tutta una serie di liberalizzazioni reali riguardanti appunto il coito (e dunque i suoi effetti): anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse, una moderna moralità dell’onore sessuale ecc. ecc. Basterebbe che tutto ciò fosse democraticamente diffuso dalla stampa e soprattutto dalla televisione, e il problema dell’aborto verrebbe in sostanza vanificato, pur restando, come deve essere, una colpa, e quindi un problema della coscienza. Tutto ciò è utopistico? E’ folle pensare che un’autorità compaia in video reclamizzando diverse tenciche amatorie? Ebbene, non sono certo gli uomini con cui io polemizzo che debbono spaventarsi di questa difficoltà. Per quanto io ne so, per essi ciò che conta è il rigore del principio democratico, non il dato di fatto (com’è invece brutalmente per qualsiasi partito politico).

Il secondo estratto proviene invece da “Tempo”, è del 1972 e si intitola “Troppa libertà sessuale e si arriva al Terrorismo”:

[…] mentre per esempio fino ad alcuni anni fa, per un adolescente avere la ragazza era un’aspirazione […] ora la ragazza è un obbligo appunto perché essendo più facile averla, e ce l’hanno subito tutti, guai a chi non ce l’ha. il terrore di essere senza ragazza crea dunque l’obbligo dell’accoppiamento, e quindi la nascita di un numero enorme di coppie atificiali, non unite da altro sentimento che quello conformistico di usare una libertà che tutti usano. […] Una società tollerante e permissiva è quella dove più frequenti sono le nevrosi, perchè essa richiede che vengano per forza sfruttate le possibilità che essa permette, richiede cioè sforzi disperati per non essere da meno in una competitività senza limiti. […] La libertà sessuale “da sola” porta a gravi squilibri […] non c’è altro in definitiva che tale sentimento: esso è integrato solo, e automaticamente, dall’ansia consumistica, dallo snobismo piccolo- borghese che è tipico della stessa socieltà che produce la permissività sessuale.

I libri di Pasolini sono tuttora in vendita nelle librerie e si trovano nelle biblioteche. Fatevi una buona lettura ogni tanto, prima di dichiararvi “Charlie” a vostra immagine e somiglianza.



fare sul serio

Modena torna in vetta, al posto che le spetta, un po’ come tutte le piazze in cui uno sport si afferma, e diventa parte del tessuto sociale. “Il volley siamo noi” recitava il coro dei tifosi al Paladozza, per il trionfo di Coppa Italia. 17 anni che quel titolo non tornava sotto la Ghirlandina, preludio di uno scudetto che manca da 13? E’ presto per dirlo, tuttavia quel coro suona a dir poco come un messaggio, una conferma se non addirittura un fondamento. La stagione 2014/2015 è quella che ha inaugurato la Superlega, con la Serie A1 che dopo alcuni anni senza retrocessioni ha deciso di darsi un’impostazione sul modello Nba. Non una novità invero perché già il baseball in Italia ha deciso di tracciare questa strada per darsi una stabilità. Si prova quindi a dare un’impronta adulta al movimento, oserei dire che si prova a fare impresa e, soprattutto, intrattenimento d’alto livello. Non facile, specie in Italia.
E non è un caso allora che si riparta da Modena, città che ha vinto il maggior numero di scudetti (25 con quattro squadre tra cui la più blasonata, l’ex Panini oggi Pallavolo Modena, che ieri ha trionfato in Coppa Italia) e che, tra le tante è l’unica conferma in un panorama che ha visto nascere trionfare e sparire tante compagini (Cuneo e Treviso su tutte, ed entrambe con un palmares notevole). Naturale che si riparta da qui, per dare un segnale e per affondare le radici di una ripartenza, Modena è la Juventus del volley, una piazza in cui il pubblico non manca e l’interesse degli sponsor nemmeno. Certo, la squadra è stata costruita per vincere ed è senza dubbio molto forte, ma non è un caso che si riparta dalla città da dove sono partiti i grandi treni che hanno fatto grande la pallavolo maschile. Modena come traino per il movimento, al pari di Milano per il basket? Probabilmente sì, ma il basket se la passa un tantino peggio. Nonostante le defezioni infatti, il volley italiano ha comunque grandi club sul panorama internazionale (il posto di Treviso è stato degnamente preso da una Trento pigliatutto) e la nazionale, dopo un ricambio un po’ traumatico nel 2009, è tornata di buon livello (eccezion fatta per il mondiale di quest’anno).
Riuscirà la pallavolo italiana, ripartendo da qui, a diventare adulta? Dopo i ridondanti anni novanta e pur essendo il secondo sport di squadra per tesseramenti (stime del Coni), è uno sport che gode di scarsa visibilità, complice anche il fatto che mamma Rai si aggiudica i diritti a tempo perso in assenza di una concorrenza mediatica che ci investa sopra. Inoltre, passata la “generazione di fenomeni” non ci sono stati personaggi in grado di conquistare l’interesse dei media (siamo ancora fermi a Zorzi e Lucchetta per intenderci). E poi praticamente si riparte da zero: Cuneo, campione d’Italia nel 2010 e squadra di primo livello negli ultimi 20 anni non si è iscritta al campionato, Treviso la dominatrice degli anni ’90 e di buona parte dei ’00 è scomparsa dalle carte geografiche, e questo solo per sottolineare le scomparse recenti. Parma, altra piazza storica non è pervenuta da metà degli anni novanta, le grandi città, salvo alcuni scudetti sparsi tra Roma e Torino non fanno da presa per il volley. E quindi? La pallavolo è LO SPORT della provincia per eccellenza, per cui il problema delle metropoli non si pone tuttavia, per colpa di un professionismo mai veramente sbocciato, è venuta a mancare la storia: i derby, le rivalità, gli scontri. Modena di fatto è l’unica superstite della storia della pallavolo italiana. Una Superlega degna di questo nome, se vuole ispirarsi ai modelli americani, deve cercare lo spettacolo laddove può essere sicura di trovarlo. Le quattro finaliste del Paladozza erano sicuramente quelle giuste al momento giusto, le migliori rappresentative del campionato e del suo livello tecnico. Ma riavere Treviso, Cuneo, Parma, puntare su Torino e Roma e cioè dove il volley ha lasciato un segno… ecco, questo sicuramente può essere il modo di far crescere il movimento. A livello di pubblico se ne gioverebbe e chissà che l’interesse mediatico non si risvegli. Ma per questo secondo aspetto, sarebbe meglio rivolgersi a qualcuno che sa di marketing.
Da modenese seppur di provincia e seppur non abbia visto la finale, faccio i complimenti alla mia squadra. Ma sarei più felice di farli a un movimento che vuole erigersi a esempio, se volesse finalmente fare sul serio.

CHI VOLA VALE

Le banalità attorno a Charlie Hebdo

Non c’è niente di più facile, ora, che cadere nella retorica, sia quella di tipo anti islamica, sia quella di tipo boldriniana. Niente di più facile. E puntualmente ci si scivola tutti, perché la triste verità della strage di Parigi coi dodici morti dell’assalto al giornale Charlie Hebdo è, ancora più di una volta, che il male è banale e banali ne sono le cause. Fino a due anni e mezzo fa avrei potuto, come tanti, buttarla sulla banalità della religione, in preda a un sussulto relativista. Oggi, da cristiano rinnovato, un discorso del genere mi ferisce perché finisce per banalizzare anche ciò in cui io credo. Eppure, anche in questo momento in cui la Francia continua a esplodere, la banalità è il dato più evidente. Non il terrorismo, non la laicità, non l’islam, non lo scontro di civiltà. Banale è stata la causa delle strage, banale l’obiettivo, banali le 12 morti. Ancora più banali i commenti che si sono susseguiti. Banale anche il contesto, la Francia l’Europa, e il connubio di valori che si cerca di far coesistere in nome di un razionalismo che tutto è tranne che razionale. A partire dalla laicità che deriva dal termine “Laico” il quale, a dispetto dell’abuso che se ne fa, non significa necessariamente che la persona definita tale, non segua una fede. Come dai laici si sia arrivati alla laicità ostendandola come valore e come collante per il multiculturalismo, solo il consumismo ce lo può spiegare. E non voglio qui imbattermi in una polemica di stampo marxista e anticapitalista, ma è un dato di fatto che il collante sociale della millantata Europa è il consumismo con le contraddizioni che comporta. Il consumismo ha portato alla “rivoluzione sessuale” che altro non è che l’ostentazione del libertinismo. Il consumismo ha portato all’emancipazione della donna, se non fosse che è più oggetto di prima nonché vittima del politicamente corretto che però non impedisce il perpetrare di azioni violente e omicide. Sempre il consumismo ha sdoganato l’omosessualità, facendola uscire dai vizi e inserendola nelle virtù del mercato, perché c’è sempre un mercato da conquistare e la Barilla ne è un esempio.
Ai tempi della primavera araba pensavo che più della ragione, anche con l’islam, ne avrebbe potuto il mercato, ma le cronache di questi giorni dimostrano che avevo torto. Del resto oggigiorno il mercato non basta a se stesso, anche se soluzioni migliori alle porte non se ne vedono.
Ma è il mercato che tiene in piedi questa falla chiamata Europa, questo guazzabuglio che si sforza di essere multiculturale ma cova i nazionalismi sotto la cenere, che prova a farsi accogliente ma risulta demente nell’approccio, che parla di unità e ottiene divisioni, che propugna valori che stanno insieme con lo sputo e il risultato è follemente contraddittorio. E si arriva alla banalità, quella dell’economia a  moneta unica, dei bilanci equilibristi e della politica parolaia, espressione a sua volta della società parolaia che oggi è tutta Charlie ma il resto dell’anno no. E la banalità trionfa su Facebook, su Twitter e sui mondi social, dove tutti possono dire la loro banale opinione senza sapere ciò che realmente dicono su islam e cristianesimo, perché i fattori spirituali, mettetevelo bene in testa, non sono razionalmente spiegabili. O avete fede, o non vi esprimete poiché “il mio popolo perisce per mancanza di conoscenza” (Osea 4:6-16) e data la banalità delle affermazioni, sufficiente a replicare le sparate di Salvini (quindi di livello renziano), direi che di conoscenza non ne avete affatto. Anzi contribuite a rendere ancora più banale un fatto grave, assurdo, tremendo perché contribuite a tollerare l’intollerabile in nome di un ecumenismo laico e consumista che ha omologato trecento milioni di persone sotto le note di un Inno alla Gioia che oggi dovrebbe risuonare orgogliosamente, mentre ciò che si percepisce, di radio in radio, di tv in tv, di giornale in giornale è un inno all’angoscia. Un’angoscia tremenda e banale, come banale è il fatto che il commando di Parigi è nato e cresciuto in Francia: fa tornare alla mente Pasolni nel suo lucido scritto “Il potere senza volto” in cui descriveva l’impossibilità di distinguere fascisti da antifascisti. Nessuno ha distinto i terroristi dagli altri, fino a che questi hanno fatto quello che sappiamo.
Per questo mi ostino a dire che quello che è accaduto è banale e che ogni commento è superfluo. Perché sono impotente di fronte a questo scempio umano, e altrettanto umanamente non posso nulla a maggior ragione dalla profonda provincia in cui vivo e in cui tutti da domani, passata l’orda di commozione (che non porta nemmeno le scarpe a quella- se c’è stata- per Pino Daniele) si saranno scordati d’essersi chiamati Charlie per un giorno e, soprattutto, se ne scorderanno il motivo. Posso solo chiudermi nella mia fede e pregare che in altra sedesistemino le cose. A voi parrà banale se non ridicolo, a me neanche un po’.

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