ammetto di non averci capito granché sull’eterna trattativa per la riforma del lavoro, non sto capendo cosa ci stia saltando fuori però, da quel poco che mi compete, capisco che stanno aggirando il problema, più o meno come al solito. la faccio breve, anzi meno: come si fa a pianificare una riforma sul lavoro in entrata e in uscita, quando quello che manca è una pianificazione del lavoro stesso? mi spiego: l’Italia, in quanto paese lungimirante, ha lasciato che tutto il suo tessuto industriale venisse smantellato, soprattutto per l’innata tendenza a buttarsi nel piatto quando è ricco e successivamente a disimpegnarsi, mantenendo uno status di conservazione più che di innovazione ed evoluzione. la conseguenza più evidente di questo atteggiamento è l’esportazione all’estero delle attività produttive.
va specificato, io non sono un economista, ma non serve una laurea per capire questo, basta leggere i giornali: da quanto tempo l’Italia è al palo con le politiche industriali, e soprattutto, da quanto tempo i prodotti di italica manifattura non attraggono più? mi si potrà obiettare che c’è un made in Italy che funziona ed è il nostro orgoglio certo, ma quanto incide sul tanto sbandierato PIL? voglio dire, la nostra economia non si basa solo sul Parmigiano Reggiano, la Ferrari, Armani, Dolce e Gabbana e il prosciutto di Parma.
faccio due esempi concreti, il primo è il mio paese, Sestola, che da villaggio di pastori, nell’arco di un secolo (quello scorso) è diventato un paese di maestri di sci. la “perla dell’appennino” la chiamano, ma in realtà è da tempo in decadenza, e il motivo principe è la mancanza di rinnovamento. da quando hanno scoperto la neve come risorsa (cioè dagli anni ’50) hanno avuto diverse stagioni e diversi investimenti nel settore turistico che a tutt’oggi è la prima attività produttiva del paese. impianti di risalita, alberghi, edilizia turistica (seconde case) svariati mini boom economici. ma da anni, per diversi fattori, il clima e la crisi soprattutto, il turismo annaspa, l’amministrazione si inventa iniziative che movimentano tutto l’indotto (un turismo a carattere sportivo anche per l’estate basato sull’utilizzo del palasport e la turnazione di squadre agonistiche) ma che sanno di soluzione tampone. le lungimiranti amministrazioni negli anni hanno perso opportunità perché si costruisse un tessuto economico alternativo al turismo (o complementare) e gli operatori del settore, finché hanno potuto hanno spremuto. oggi il settore annaspa, avrebbe bisogno di rinnovamento, invoca misure dall’amministrazione ma nella scorsa campagna elettorale erano gli assenti tra il pubblico. si sono insomma seduti sugli allori, ma quegli allori sono appassiti. la stagionalità non basta più a mantenere i pochi lavoratori del territorio, non ci sono alternative e il territorio spopola. in una situazione del genere a che serve una riforma del mercato del lavoro?
esempio numero due, la pallavolo: dal 1989 al 2005 abbiamo avuto la migliore delle rappresentative nazionali all’interno dello sport azzurro, e una delle più temibili e vittoriose al mondo (è mancato solo di vincere l’olimpiade). il tutto però facendo appoggio su una generazione di giocatori straordinari che con un relativo ricambio, hanno saputo assicurare continuità al movimento. ma il punto qual’è? che, come emerge da una recente intervista ad Andrea Lucchetta durante il periodo d’oro (per non dire di platino) della pallavolo italiana (e si parla dei tempi in cui una finale mondiale non di calcio spostava i palinsesti Rai) non sono stati fatti i necessari investimenti per garantire una continuità degna di questo nome. insomma si è spremuto finché si è potuto e il resto è noia.
si potrà obiettare che sono casi singoli e limitati ad un ambito (la pallavolo tra l’altro è uno sport e in quanto tale ha regole sue sulla disciplina del rapporto di lavoro -a proposito di precari!), ma in realtà se espandiamo le nostre vedute, apprendiamo che tutto il sistema italico funziona così. quando qualcosa funziona, si spreme all’impossibile fino ad esaurimento risorse e non si fa (quasi) nulla per rinnovarle. la conseguenza è che ci si trova con un sistema di attività produttive che, quando non viene smantellato o venduto a proprietari stranieri, non sta in piedi neanche a impalarlo e vive di concertazione, di piani industriali approssimativi e contributi statali.
non si pensi però che questa sia un invettiva contro gli imprenditori o i grandi industriali (io stesso sono un lavoratore autonomo con due partite iva), perché anche i sindacati hanno le loro grosse colpe in questo sfacelo, innanzi tutto perché hanno anche loro la tendenza alla conservazione. da come la vedo io, il sindacato ragiona in questi termini: tu imprenditore crei il posto di lavoro e fine delle favole. il lavoro fine a se stesso con buona pace dello sviluppo delle risorse umane.
secondo me invece, il sindacato dovrebbe occuparsi per primo del fatto che i suoi iscritti non abbiano atteggiamenti che possano nuocere alla produzione e di conseguenza alla categoria. in secondo luogo la conservazione del posto di lavoro dovrebbe essere intesa come un rinnovamento dello stesso, quindi il sindacato dovrebbe anch’esso farsi promotore dei rinnovamenti dei piani industriali. sicuramente lo scontro resterebbe, ma sarebbe meno teatrale e più propositivo.
la commedia a cui assistiamo invece, è quella di due categorie, imprenditori e sindacati (con annessi lavoratori) che puntano alla conservazione a qualunque costo, finché c’è posto, finché ci sono risorse. con un simile modo di ragionare e di programmare il futuro (solo sul breve periodo e mai per il lungo) a cosa serve una riforma del mercato del lavoro di cui tra l’altro, non si capisce cosa cambi effettivamente?
in un sistema ragionato, dove i cicli produttivi non sono finalizzati a raccogliere finché ce n’è, ma sono ponderati per un inizio, un apogeo, una parabola discendente, e quindi una nuova ripartenza, le riforme verrebbero di conseguenza, perché sarebbero il naturale sbocco della percezione dei tempi che cambiano, sulla falsariga di ciò che è avvenuto negli anni ’70 col diritto di famiglia (altro che lotte sessantottine, si trattava di un cambiamento percepito!).
invece siamo qui a parlare di tutto e niente. all’estero elogiano Mari&Monti, ma non sto capendo se perché ci sta salvando noi e l’euro, o perché stanno preparando l’invasione neocoloniale. l’impressione che ho è che potremmo finire in un improbabile medioevo, con l’Italia economica divisa tra le grandi imprese straniere e l’Unione Europea come moderno Impero Romano Germanico. nel frattempo aspettiamo cosa dirà la diplomazia pallonara, soprattutto dopo le elezioni in Francia. in base a come si metterà lo scenario politico ci sarà il vincitore del campionato europeo di calcio. ma di questo parleremo un’altra volta…
Stefano Bonacorsi